Stefano Pasini

 

 
 

 

III

 

Berlino, lunedì 6 Marzo 1944, RSHA

 

Nell’aria, lungo le strade di Berlino, s’iniziava a sentire la fine dell’inverno. Era meno freddo, il cielo si stava rischiarando, e le giornate si allungavano. Per chi conduceva una vita normale, questi cambiamenti permettevano di tirare un sospiro di sollievo: il lungo e gelido inverno era ormai dietro le spalle, si andava verso il tepore della primavera in un clima che, nonostante il perdurare della durissima guerra in Russia, sembrava volgere per il meglio anche per il Reich.

Tutto questo interessava poco o niente a Straub, che era in un momento di profonda depressione. Lo scontro avvenuto al comando supremo dell’esercito aveva lasciato il segno su Straub, già indebolito e prostrato dalle sue vicende personali. La violenta reazione dei generali e dei feldmarescialli, che avevano discreditato e ridicolizzato la sua relazione sulle fortificazioni francesi lo aveva profondamente colpito. La solidarietà di Kaltenbrunner e di Berger lo aveva solo parzialmente consolato di questo fallimento: l’ostilità di Guderian, Seidel, Rommel e degli altri che si erano scagliati contro di lui con tanta violenza gli aveva fatto capire di avere sbagliato l’approccio al problema. Doveva dare credito a Kaltenbrunner di avere capito fin dall’inizio a che cosa stava andando incontro, mettendola giù così dura. Lui non lo aveva ascoltato, e il risultato era stato che non solo la sua figura ne era uscita piuttosto ridimensionata, almeno come specialista di fatti militari, ma anzi per i comandanti supremi del fronte occidentale era diventato quasi un punto d’onore quello di ignorare la relazione stessa e di agire più o meno nella direzione opposta rispetto a quella che veniva suggerita.

Payn era uno dei pochi che cercava di dargli conforto. Lo aspettava, quella mattina, dentro al suo ufficio, calmo come sempre.

“Ti hanno usato” disse Payn, sedendosi davanti a lui, dopo che la segretaria fu uscita. “Sei stato semplicemente il capro espiatorio della situazione. Credo che Heydrich lo abbia fatto apposta, di non essere presente. Se fosse stato presente, avrebbe dovuto difenderti o perlomeno lottare contro i generali. Così, invece, i generali hanno potuto scagliarsi contro il suo emissario, che sei tu, rifiutando tutte le tue conclusioni, perché tu hai detto, in pratica, che non stanno facendo il loro dovere.”

“E’ la verità” replicò Straub, asciutto.

“Certo, lo sappiamo bene e sono sicuro che lo sa anche Heydrich. Io credo che lui volesse mettere tutti questi alti papaveri di fronte alle loro responsabilità, fare suonare nella loro testa un campanello d’allarme. Il risultato è che la tua analisi, giusta o sbagliata che sia, ora è diventata il simbolo di un attacco personale agli alti ufficiali della Wehrmacht, della Kriegsmarine e della Luftwaffe.” Fece una breve pausa per accendersi una sigaretta, poi riprese. “Ora, sembra che lo facciano per dispetto, di darti contro e confutare punto per punto le conclusioni della tua ispezione, privilegiando a priori un’interpretazione del tutto opposta a quella che hai suggerito. Le fortificazioni vanno benissimo così come sono, l’attacco, se mai ci sarà un attacco, perché in molti lo escludono, avverrà sulle spiagge di Calais e i bunker del sistema difensivo provvederanno a spazzare via le prime teste di ponte mentre le divisioni corazzate stazionanti nelle retrovie, pronte a muovere giorno e notte, faranno il resto. Tutto perfetto, tutto assolutamente perfetto. Un bellissimo gioco di guerra che loro, sulle loro carte, hanno preparato in ogni minimo dettaglio. L’unica cosa che continuano a trascurare, un dettaglio probabilmente insignificante, è l’altro giocatore: il nemico. Nessuno di questi signori prende in considerazione l’idea che gli inglesi, che hanno già dimostrato in altre occasioni di essere molto più furbi di quanto noi non crediamo, evitino con cura proprio i luoghi di sbarco che il comando generale ha così dettagliatamente identificato. In questo sta la stupidità dei nostri generali, e tu lo hai capito perfettamente. Non potevi pretendere che, mostrando al mondo i segni della loro limitatezza mentale, loro ti ringraziassero e facessero opera di autocritica, no?”

 

Giorno dopo giorno, il lavoro andava avanti, ma il peso sullo stomaco di Straub non calava. La sua mente iniziava a essere invasa dai suoi fantasmi, i ricordi di un anno difficile e di una felicità troppo breve e troppo presto perduta lo stavano opprimendo in una maniera tale da renderlo molto spesso folle di rabbia, anche se tutti i suoi sforzi per mantenere una faccia pubblica assolutamente distaccata e serena avevano fino a quel momento avuto un buon successo.

I momenti veramente difficili erano quelli della sera, quando si ritrovava solo nel grande appartamento che Heydrich gli aveva riservato all’atto del matrimonio e che ora si trovava a vivere da solo, un appartamento che gli ricordava troppo Ilse e che per lui non aveva più molto senso. Tutto quello che poteva fare era tentare di leggere, forse scrivere, magari ubriacarsi. Nient’altro.

In quelle serate, lo riassalivano soprattutto i ricordi più tremendi, alla sua mente si affacciavano le scene che non avrebbe mai più voluto vedere né ricordare. Spesso era un affollarsi di fantasmi, cupi, lugubri; altre volte erano le immagini felici della sua infanzia, della sua adolescenza, dei pochi giorni passati con Ilse. Il suo sorriso, la sua quieta gentilezza. In quei momenti, gli veniva da piangere, ma non ci riusciva quasi mai, e gli nasceva dentro un magone che si portava dietro per lunghe notti insonni. La mattina dopo tornava in ufficio ancora più stanco, ancora più insofferente, a esaminare rapporti stupidi e inutili, perché tanto anche dopo averli elaborati nessuno avrebbe mai considerato le soluzioni che avrebbe potuto proporre. Era tanto depresso che evitò persino di andare a fare gli auguri di compleanno a Heydrich, che martedì 7 Marzo aveva compiuto quarant’anni.

 

La mattina del 10 marzo Straub si trovò sulla scrivania un rapporto dimesso, quasi marginale, proveniente dal fronte orientale. Il comando della 11° divisione Waffen-SSNordland’, da sempre una di quelle più esposte in prima linea, chiedeva che le venissero distaccati degli ufficiali superiori per coordinare i lavori di sicurezza interna e di raccolta delle informazioni; un lavoro reso necessario dalla crescente pericolosità delle azioni dei partigiani e le inspiegabili fughe di notizie che sembravano talvolta pregiudicare le azioni della Divisione stessa. Senza dubbio, proseguiva l’informativa, sarebbe stato auspicabile che i servizi di sicurezza reagissero in maniera più diretta, sul campo, raccogliendo le informazioni necessarie a stroncare le fughe di notizie e ottenerne invece dal fronte opposto per permettere una migliore gestione delle azioni offensive. La richiesta era formulata in termini tiepidi, come se il comandante della divisione, o chi per lui, non sperasse di ottenere granché da questa richiesta. Ma era un foglio di carta destinato all’archivio, come per scaricarsi dalle responsabilità di questi accadimenti.

Straub rimase a fissare la lettera, scritta su di una macchina da scrivere dalla grafia diseguale e che, visto il precario allineamento delle lettere, probabilmente aveva già subito danni di guerra, per qualche minuto. Disse all’aiutante di lasciarlo solo; il militare ubbidì immediatamente. Uscendo dall’ufficio, i suoi occhi incontrarono quelli della segretaria, ambedue si rivolsero un muto interrogativo e non fecero commenti.

Appoggiandosi all’indietro nella sua poltrona, Straub reclinò indietro la testa finché i suoi occhi non si fissarono sull’attacco del lampadario al soffitto. La sua mente iniziò a vagare, girando attorno a quelle due parole, le più temute da qualsiasi soldato tedesco. Il fronte orientale! Un inferno che era rimasto l’unico vero fronte di guerra aperto dopo l’armistizio ufficialmente stipulato con inglesi, americani e i loro alleati nel luglio del 1943. Una delle zone di guerra più drammatiche e crudeli del mondo, nelle quali si combatteva in una maniera disumana, con una ferocia che probabilmente non aveva alcun paragone neanche con i peggiori momenti delle invasioni barbariche del Medioevo. Non c’era da meravigliarsi del fatto che nessun ufficiale superiore, in particolare dei servizi di sicurezza, volesse andare verso la Russia. La durezza delle condizioni climatiche, la violenza dei combattimenti, la crudeltà dei nemici da una parte e dall’altra, tutto rendeva il fronte orientale il posto più duro e pauroso del mondo. Chiunque avesse un minimo di senso di autoconservazione, un qualche istinto di sopravvivenza, e soprattutto la possibilità materiale di scegliere, avrebbe scrollato brevemente le spalle e avrebbe archiviato quella richiesta. Chiunque avrebbe preferito starsene a Berlino, evitando il fronte orientale a qualsiasi costo. La lettera del comando della Nordland, quindi, avrebbe dovuto semplicemente finire ben allineata in uno schedario e poi in un archivio, senza alcun seguito pratico.

Ma per Straub le cose erano diverse. La sua vita, a Berlino, stava diventando un altro inferno. Certo, un altro tipo di inferno, fatto di idee e di immagini e non di bombe e granate, ma pur sempre un tormento di un tipo a cui non riusciva sfuggire. Lo perseguitava il timore di cedere a questi fantasmi, di impazzire, di perdere improvvisamente il controllo e di cadere in un abisso dal quale forse non si sarebbe mai più risollevato, o forse era la paura di perdere, nel cedimento della sua mente, anche tutto ciò che aveva guadagnato in termini di rango e privilegi fino a quel momento. No, forse non era neanche quello, si corresse. In fondo a lui di queste cose non importava poi troppo ... E poi c’era la necessità di provare qualcosa in più, di dimostrare ai suoi nemici, a quelli annidati nei Ministeri, all’interno della Gestapo, nello stesso circolo intimo del Führer, che lui era qualcosa in più del semplice funzionario fortunato a cui tutto è andato diritto senza alcun merito militare, che quindi ricopriva una carica sproporzionata al suo reale valore. Sapeva che c’era chi batteva su questo tasto, dietro alle sue spalle, ma fino ad allora nessuno aveva mai avuto il coraggio di dire nulla né a lui né alle persone che gli stavano accanto. Tutti sapevano bene quanto il Führer, Heydrich, tenesse a lui, cosa avessero fatto insieme l’anno prima, e la lunga ombra sinistra del grande boia delle SS sembrava continuare a proteggerlo, anche se da molto più in alto e più lontano di quanto non fosse in precedenza.

La lettera proveniente da quel lontano comando, da un avamposto assediato nei pressi di Minsk, aveva fatto scattare un processo mentale che ora non si arrestava più, al quale Straub stava quasi affezionandosi. E se fosse partito per il fronte orientale? In fondo, a Berlino stava decisamente male. Accanto ai privilegi materiali c’era una sofferenza morale e spirituale che probabilmente lo avrebbe fatto impazzire o condotto al suicidio in poche settimane. Nelle trincee dell’est, sicuramente i disagi materiali sarebbero stati molti, il pericolo continuo, la paura e la tensione, enormi. Ma, almeno, avrebbe dimostrato a se stesso e agli altri di sapere rinunciare alla vita comoda per dedicarsi a qualcosa che faceva parte del servizio allo Stato, rispondendo a una richiesta fatta dai soldati del fronte, quelli di prima linea.

Certo, era duro decidersi ad abbandonare i suoi privilegi e fare un salto tanto grande... Pensò per un attimo di telefonare a Payn, di chiedere il suo consiglio, ma poi desistette. Il suo amico, che teneva alla sua salute, lo avrebbe senza dubbio sconsigliato. In realtà, chiunque fosse stato sano di mente gli avrebbe assolutamente proibito di partire: era, per la mentalità corrente, una follia. Pertanto, era inutile chiedere consiglio.

E poi, comunque, la sua decisione era presa. Per non rischiare di far passare troppo tempo, e di fare insinuare nella sua mente qualche dubbio che incrinasse la decisione che aveva preso, prese in mano il telefono, compose il 12 00 50, un numero che lui conosceva a memoria ma a cui avevano accesso ben poche persone, e attese la comunicazione. Quando la centralinista dall’altra parte prese la chiamata, gli passarono un segretario, quindi il Reichsleiter Viessmann, a cui chiese un appuntamento urgente. Gli fu accordato per quel pomeriggio stesso alle 16 di quel venerdì 10 marzo, anche questa una cosa che nessun altro avrebbe potuto ottenere. E quindi, finalmente quasi sorridente, richiamò il suo aiutante e la segretaria e li informò che nel pomeriggio avrebbe avuto un appuntamento col Führer.

 

Varcando la soglia della Cancelleria, quel pomeriggio di un grigio martedì di febbraio, Straub sentì aumentare il suo nervosismo. Era naturale, visto che stava per infilarsi in quella che era a tutti gli effetti la tana del lupo; l’imponente meccanismo di sicurezza approntato da Heydrich per la sua protezione, che certo non meravigliava Straub visti gli eventi dell’anno prima, comunque lo innervosiva ugualmente. Le guardie della Leibstandarte lo perquisirono, com’era d’obbligo anche per i più alti ufficiali delle SS, anche se ovviamente nel suo caso tutti usavano un riguardo speciale. Le sue molte decorazioni, soprattutto le fronde di quercia con spade e brillanti che portava al collo, giustificavano ampiamente questo rispetto. Una volta lasciata la sua pistola d’ordinanza alla guardia, fu condotto da uno degli aiutanti di Heydrich fino all’ufficio del Führer. Ci fu un’attesa di circa un quarto d’ora, ma a questo Straub era preparato. Anzi, pensava di dovere aspettare di più, e fu quasi meravigliato quando, alle quattro in punto, dall’ufficio del Führer uscì uno dei generali dello Stato Maggiore, con tre ufficiali della sua squadra, e venne ammesso alla presenza del Führer.

Heydrich era di buon umore quel pomeriggio, lo salutò con cordialità ma rimase alla scrivania, non gli offrì di andarsene a sedere nelle poltrone situate nell’angolo opposto dell’ufficio. Questo perché era un appuntamento per motivi di lavoro, non era una visita di cortesia. Il solito Viessmann apparve alla porta, vide che era arrivato Straub ed entrò; si salutarono con un cenno del capo. Avevano mantenuto buoni rapporti, dato che a Straub non interessava prendere il posto di Viessmann e lui lo sapeva. Inoltre la dura censura dei generali sul suo rapporto dalla Francia lo aveva decisamente ridimensionato: non sentendosi minacciato, Viessmann poteva permettersi di mantenere un rapporto quasi cordiale con un ufficiale cui Heydrich aveva sempre tenuto molto.

Straub affrontò l’argomento in maniera diretta, senza troppe parafrasi.

“Mio Führer, ho ricevuto oggi una richiesta da parte della divisione Nordland per l’assegnazione di un ufficiale superiore dei servizi di sicurezza, in quanto nella loro zona si sono verificati numerosi episodi sospetti di fuga di notizie e necessitano quindi di una struttura condotta da specialisti per prevenire questo problema.”

Sempre rimanendo seduto, Heydrich lo guardò ma senza parlare, i suoi occhi sottili e crudeli, vivacissimi, tradivano la sua curiosità, ma intanto ascoltava.

“La situazione, indubbiamente, è preoccupante”, continuò Straub, “le formazioni partigiane della zona attorno al comando della Nordland sembrano avere molte informazioni, molto minuziose, ed è quindi necessario operare in loco per capire le origini di questa fuga.”

“Certamente” disse bruscamente Heydrich. “E allora?”

“Ho pensato che questo sia un argomento molto importante, mio Führer” disse Straub, che come sempre si sentiva un po’ a disagio quando si confrontava con quell’espressione dura, tagliente, che il capo supremo del Reich sapeva assumere quando voleva. “Ma non è facile trovare un volontario per questo posto, né d’altra parte possiamo mandare un ufficiale qualsiasi. La divisione Nordland copre un fronte piuttosto ampio, e la sua tenuta è assolutamente indispensabile. Per questa ragione, mio Führer, ho pensato di partire personalmente per valutare la situazione sul posto. Con il vostro permesso, s’intende” aggiunse, cautamente Straub.

“Voi?” Heydrich guardò fisso Straub, e i suoi occhi si allargarono impercettibilmente, come se la sorpresa di questa proposta fosse tale da vincere per un momento anche il leggendario autocontrollo del Führer. Fu solo un attimo, gli occhi tornarono immediatamente più stretti, simili a fessure crudeli. Anche Viessmann sembrò trasalire. In quello studio si erano spesso sentite richieste a proposito del Fronte Orientale, ma di solito era qualcuno che chiedeva di esserne tolto, ufficiali che mendicavano un trasferimento altrove. Era forse la prima volta che qualcuno chiedeva al Führer in persona di andarci volontario.

“Ne siete sicuro, Straub?” Il Führer si alzò. Abbastanza alto da essere imponente anche in quel salone dagli altissimi soffitti, Heydrich dell’atleta, o meglio, della belva, aveva anche il passo. Si girò verso la grande finestra sulla sinistra della sua scrivania, guardando all’esterno come se dovesse pensare a questa notizia sconvolgente, come se non sapesse cosa dire. Straub rimase seduto sulla sua sedia e non aggiunse nulla. Sapeva che la mente di Heydrich stava lavorando febbrilmente, e che le sue parole non avrebbero aggiunto né tolto nulla alla sua decisione finale.

Dopo un minuto abbondante di silenzio, passato in una immobilità quasi irreale, Heydrich lentamente si voltò, si appoggiò contro lo stipite della finestra, mise le mani nelle tasche dei pantaloni, un gesto per lui inconsueto, e guardò fisso Straub.

“Perché volete andare laggiù, Straub?” disse Heydrich, con quella sua voce leggermente stridula, “non siete forse contento del vostro posto, qui a Berlino?” Gli occhi, quei due occhi duri, crudeli, lo stavano scrutando impietosamente. Ma Straub resse lo sguardo.

“No, mio Führer, no, sono molto contento del mio lavoro e a Berlino lavoro bene.” Continuò con voce ferma. “Ma qui c’è una richiesta precisa, e io vorrei capire che cosa sta succedendo. Voi stesso, mio Führer” aggiunse Straub, con convinzione, “siete più volte andato di persona sul fronte orientale, volontariamente, impegnandovi in azioni di combattimento aereo contro il nemico, rischiando la vita. Credo che io possa, anzi, debba fare qualcosa di simile. Inoltre” aggiunse in un tono più sommesso, “credo che in questo momento io possa allontanarmi dal mio ufficio senza troppi problemi.”

“Capisco” replicò Heydrich, lentamente. Si vedeva che il riferimento alle sue personali azioni aeree contro i russi nel 1941 e 1942, che Hitler aveva fortemente disapprovato, lo aveva colpito. “Capisco anche che i vostri recenti lutti vi diano una motivazione aggiuntiva per cercare qualche distrazione, anche se, personalmente, io avrei cercato soddisfazione in posti più confortevoli.” Ebbe un fugace sogghigno che, per chi lo conosceva bene, significava molte cose; in sostanza, Heydrich gli aveva dato il suo assenso, anche se, personalmente, gli avrebbe consigliato di risollevarsi il morale in un bordello. Straub ritenne opportuno sorvolare su queste implicazioni e concentrarsi invece sulla immediatezza di ciò che andava fatto, in maniera da poter andare via più presto possibile, e gli chiese di poter firmare subito l’autorizzazione al trasferimento.

“No, niente trasferimento” disse, risolutamente, Heydrich. “Il trasferimento rappresenterebbe un movimento più o meno definitivo, e io non voglio che voi finiate per passare dei mesi sul fronte orientale. Vi ricordo che l’aspettativa di vita, lì, è estremamente breve. Una missione rappresenta una soluzione molto più interessante: recandovi in missione alla Nordland avrete i poteri conferiti dai servizi di sicurezza e dal mio incarico di missione, ma al tempo stesso potrete chiedere di essere richiamato a Berlino non appena lo riterrete opportuno, o io vi richiamerò. Voi dovete rimanere un membro delle ‘Allgemeine SS’, come siete ora, non passare alle ‘Waffen SS’. Alla Nordland sarete aggregato con compiti speciali.”

“Grazie, mio Führer, ma...”

“Non c’è da ringraziare, Straub” disse, non senza una certa durezza, Heydrich “lo faccio anche nel mio interesse. Voglio che il vostro ufficio rimanga ben saldo nelle vostre mani anche ufficialmente. Se voi doveste essere trasferito permanentemente alla Nordland sarei costretto a nominare qualcun altro in quel posto, e non sono sicuro che troverei in questo momento qualcun altro di mio gradimento. Pertanto voi rimarrete il titolare dell’Amt VIII… dopo tutto, lo abbiamo creato apposta per voi, quell’ufficio… quella che effettuerete alla Nordland sarà solo una missione a termine.”

Era il segnale che il colloquio era terminato. Straub si alzò in piedi, ringraziando. Heydrich lo guardò ancora una volta fisso, senza sorridere.

“Capisco la vostra situazione, Straub,” disse, e i suoi occhi erano più duri che mai, “ma voglio che vi riprendiate presto. Ho ancora bisogno di voi, e fra poco ci saranno pensieri sicuramente più gravi. La guerra non è ancora finita” aggiunse, e il tono della sua voce, ora, era diventato tagliente come una lama, “io sono assolutamente sicuro del fatto che avremo pessime sorprese fra poco. E’ necessario che manteniamo occhi e orecchie bene aperti, tutti. Niente distrazioni! Dobbiamo sistemare il fronte russo, ed è solo per quello che io approvo questa vostra missione, perché prima o poi ci ritroveremo nei guai a ovest. Ricordatevelo bene, Straub, è sicuro.” E dopo avere pronunciato queste ultime parole girò le spalle e tornò a sedersi alla sua scrivania, senza più guardarlo. Viessmann lo accompagnò alla porta; alle 17,20 Straub usciva dall’ufficio del Führer con una nuova missione.

“E’ un buon ufficiale” disse Viessmann, tornando verso la scrivania di Heydrich, che stava leggendo un altro rapporto.

“Lo so” disse Heydrich, posando il foglio sulla scrivania. “E so anche che vuole andare in Russia perché qui si sente inutile. La morte di sua moglie e dei suoi parenti lo ha prostrato. E’ meglio che se ne vada al fronte e superi questa fase... La considero una specie di terapia. Spero comunque che non lo facciano fuori. Di gente come lui ne abbiamo ancora bisogno, specialmente se quei maledetti inglesi vogliono davvero riprendere la guerra a ovest.”

 

Ritornato al RSHA, Straub si rimise subito al lavoro. L’approvazione di Heydrich al suo piano lo aveva in parte soddisfatto, anche se il colloquio era stato punteggiato di moniti e avvertimenti che non lo avevano certamente tranquillizzato. Il riferimento a complicanze e problemi che stavano ancora per arrivare lo avevano messo all’erta, e mentre tornava nel grande palazzo dei servizi di sicurezza continuò a rimuginare quelle parole. Ma, una volta entrato, le necessità pratiche presero il sopravvento, il discorso di Heydrich venne messo in un angolo e Straub si mise a preparare la sua missione. Per prima cosa andò dal comandante supremo dei servizi di sicurezza, per informarlo di questa sua idea. Del fatto che il suo diretto superiore l’aveva già approvata Kaltenbrunner non disse nulla, approvò tiepidamente la decisione di Straub e chiese notizie del Führer. Era una richiesta abbastanza insolita, ma Straub non ci fece troppo caso. Aveva altre cose a cui pensare.

Nel suo ufficio, la notizia venne invece accolta con vero sconcerto, e una delle sue segretarie, in particolare, scoppiò a piangere. Era un suo diritto, essendo una ragazza piuttosto giovane e sicuramente troppo emotiva per una guerra, pensò Straub, ma l’espressione sbalordita del suo giovane aiutante gli fece capire che l’idea che si fosse offerto volontario per la Russia era destinata a fare molta impressione. Questo gli fece piacere.

Fece rimandare alla Nordland un breve comunicato nel quale si informava il comandante della divisione che lo stesso responsabile dell’Amt VIII, cioè lo Standarteführer Straub, sarebbe intervenuto sul posto per chiarire la situazione. Ciò sicuramente avrebbe generato altrettanto stupore nella sede di quel lontano comando.

Si informò anche su quelli che erano i comandanti della divisione, che aveva una storia lunga e gloriosa. Tutti ottimi ufficiali, apprese dalle fonti accuratamente riportate e archiviate all’interno dei loro registri. Una divisione che però aveva riportato gravi perdite nell’ultimo anno di combattimenti e che aveva dovuto essere ripristinata recentemente con un’iniezione di uomini e materiali molto cospicua. In sostanza, una delle migliori unità di prima linea su cui potesse contare il loro esercito, la migliore dopo le divisioni d’élite come le Leibstandarte, Totenkopf, Reich e Panzer-Lehr.

Quella sera stessa decise che era ora di provare a preparare i suoi bagagli personali. Rientrò nel suo appartamento abbastanza presto, erano solo le sei del pomeriggio, e iniziò ad aprire i suoi armadi per fare una valigia. Poca roba, si disse, in pratica solo la biancheria di ordinanza, le uniformi invernali, e poco più. Denaro, non sarebbe praticamente stato necessario. Un orologio, non il prezioso Rolex che gli era stato dato dal suo amico Fuhrmann, ma il più robusto Tutima che gli avevano regalato gli aviatori della ‘Nachtjagd’ dopo gli eventi dell’anno precedente. Quindi aggiunse le foto di Ilse e quelle dei suoi genitori.

Decise di preparare anche qualcosa, le sue poche cose preziose, da riparare in una cassaforte, visto che nelle cantine del palazzo del RSHA ce n’erano alcune particolarmente resistenti. Mise in una robusta cassetta metallica il Rolex, alcuni gioielli, le sue lettere normali e speciali, la sua Exakta, la Leica ‘K’, la sua fotocamera preferita. Dall’armadio principale, il solo, in fondo, che lui usasse, venne fuori anche la grande busta delle fotografie compromettenti, quelle grazie alle quali era riuscito a ricattare il feldmaresciallo Milch l’anno precedente. Erano state preziose, ora non servivano più. Chiuse la busta e si fece un appunto per chiamare il suo amico fotografo, che venisse a riprendersele.

Quando ebbe terminato questi preparativi si sentì meglio, anche se pensare a partire per il fronte orientale gli dava una specie di vertigine, come se si fosse spinto volontariamente sull’orlo dell’abisso e che, ora che era su questo ciglio, davanti a sè non ci fosse nulla di visibile se non un grande, pauroso buco nero, qualcosa davanti al quale la mente vacilla.

Ma la decisione era già stata presa, ora non si poteva più tornare indietro, e poi, se proprio ci fossero stati problemi grossi, poteva sempre tornare a Berlino in seguito. Ora era il momento di dimostrare a sé e agli altri che il suo grado e le sue medaglie erano meritate, che sapeva fare il suo mestiere. Con questi pensieri, e con l’aiuto di un ultimo bicchiere di grappa, se ne andò finalmente a letto e, per la prima volta dopo molte settimane, cadde immediatamente in un sonno profondo e tranquillo.

 

Berlino, 14 Marzo, mattina

 

Il grosso, sgraziato Junkers da trasporto era parcheggiato sulla pista dell’aeroporto di Berlino e i suoi tre motori stellari brontolavano sordamente, in sottofondo, mentre la Horch di Straub arrivava all’aereoporto. Dando le ultime istruzioni al suo aiutante, che sarebbe rimasto a Berlino, Straub gli raccomandò soprattutto di mantenere una linea di contatto continua sia con la Nordland che con lui e con la direzione dei servizi di sicurezza a Berlino.

Straub salì sull’aereo alle undici di mattina. Qualcuno lo aveva guardato come se fosse matto, quando aveva detto che andava volontariamente in Russia, altri avevano invece espresso senza mezze misure la loro ammirazione per questa decisione. La maggior parte pensava che con tutto quello che aveva passato recentemente, Straub probabilmente aveva davvero bisogno di andare a fare qualcosa di estremamente impegnativo per non soffocarsi nei suoi pensieri e il fronte orientale, se non altro, garantiva di assumere un’assoluta priorità nei suoi pensieri fin dal primo momento che fosse atterrato. Di questo poteva star certo.

Il volo fu relativamente tranquillo almeno fino a Varsavia, dove l’aereo atterrò alle 13.30 per fare rifornimento e per imbarcare un altro ufficiale diretto alla Nordland. Si presentarono, era un Untersturmführer che era stato assegnato al reparto logistico e che non sembrava per niente contento di andare verso l’inferno dei carristi. Però non si azzardò a dire una parola in questo senso, visto il grado dell’ufficiale che stava seduto a fianco.

Atterrarono alle 17 su una striscia erbosa che faceva da aeroporto vicino a Rakau, e ad attenderlo c’era un’automobile. Naturalmente stavolta non era la lussuosa berlina che usava a Berlino ma una Kübelwagen guidata da un caporale delle SS, con un altro graduato a fianco armato di mitragliatrice e con un Hauptsturmführer dello Stato Maggiore della Nordland che lo aspettava. Un’altra automobile attendeva invece il tenente, che andava in un altro reparto. Dopo i saluti ufficiali, Straub salì sulla camionetta e si diressero verso il comando generale della divisione, che, gli assicurò il capitano, distava non più di dieci chilometri da lì.

Straub non poté mancare di notare che la camionetta, che portava sul parafango anteriore la caratteristica svastica dai bracci curvi che era il simbolo divisionale della Nordland, aveva alcuni fori di pallottole nella fiancata, la tela della capotta era lacerata in alcuni punti, e i militari avevano tutti uniformi mimetiche e pesanti pellicce sintetiche colorate in bianco sporco. Il freddo era intenso, la strada gelata e piena di buche. L’Hauptsturmführer, come se avesse intuito i pensieri dello Standarteführer seduto a fianco a lui, disse “questa strada è la migliore che possiamo prendere, ci vorrà comunque circa un’ora per arrivare al comando. Perlomeno, viste le nubi, non dovremmo avere problemi con gli aerei nemici. Spesso scendono a quest’ora, a mitragliare.”

Approfittò di quel breve viaggio per iniziare a raccogliere qualche informazione. Si informò sui pericoli costituiti dall’aviazione nemica e dai partigiani. L’Hauptsturmführer cercò di dire meno che poteva, anche se disse subito che il pericolo dei cacciabombardieri russi stava diventando ogni giorno più forte, e ammise apertamente che la protezione fornita dall’aviazione tedesca stava diventando di giorno in giorno sempre meno efficace. “E dei partigiani?”

L’ufficiale aveva le idee chiare, in proposito. “Banditi”, disse con rabbia, “solo banditi, che ci sparano alle spalle e che ci creano più danni di quanto non faccia l’Armata Rossa. Ma rubano e uccidono anche i loro stessi concittadini, gli stessi russi, e non solo quelli che collaborano con noi, tutti .... perché sono dei rapinatori e dei ladri.”

Le strade su cui si muovevano erano disastrose. Colpa della guerra, ovviamente, ma erano anche strade nate con incredibili difetti di progettazione e di realizzazione, cui le bombe e il passaggio dei carri armati avevano dato il colpo di grazia.

Il comando della Nordland era provvisoriamente alloggiato in un bunker abbastanza grande, ereditato dall’esercito russo nei pressi di Minsk. Era una struttura relativamente ampia, dentro la quale si svolgeva la consueta attività di tutti i comandi divisionali. Straub fu condotto nell’ufficio del comandante, il Gruppenführer Fritz Scholz, il quale lo accolse cordialmente, lo presentò al suo Stato Maggiore e gli fece fare un breve giro della struttura. Quindi, esaurita la parte ufficiale dell’incontro, lo riaccompagnò all’interno del suo ufficio, ammise all’interno solo il vicecomandante e un altro generale di brigata, fece chiudere la porta d’ingresso, lo fece sedere e divenne improvvisamente serio.

“Noi siamo molto contenti di avervi qui con noi, Standarteführer” disse il generale, affabilmente, ma con grande serietà, “però debbo dire che il vostro arrivo è stato piuttosto, come dire, inatteso. Voglio dire che la nostra richiesta di un ufficiale per il servizio di sicurezza non ambiva a ottenere una risposta così pronta e con l’invio di un ufficiale di grado tanto alto.” Si fermò. Straub non fece commenti. Attendeva di vedere dove il generale, un uomo esperto e indubbiamente valoroso, voleva arrivare.

“Non mi fraintendete, Standarteführer...” disse l’ufficiale, “sono, anzi, siamo ben contenti di avere avuto una risposta così energica. Ci domandiamo però se questo, voglio dire, l’arrivo nientemeno che di un ufficiale superiore del servizio di sicurezza, non sia dovuto a qualche altra considerazione da parte dei nostri comandanti supremi a Berlino.”

Il silenzio, dentro al bunker, per un istante fu assoluto. “La situazione del fronte, qui, è molto difficile”, continuò il generale, “e abbiamo subito alcune critiche perché non siamo stati in grado di mantenere le linee difensive che ci era stato ordinato di difendere. D’altra parte, la pressione del nemico è stata molto forte e abbiamo avuto problemi anche con l’equipaggiamento invernale.”

Finalmente, Straub si decise a parlare, alzando la mano destra come per fermare le parole del suo collega. “No, Gruppenführer, vi posso assicurare che il mio arrivo qui non dipende assolutamente da queste situazioni nè dalla conduzione della campagna sul campo. Per quanto mi riguarda, non conosco assolutamente ciò che è successo nè quello che è stato fatto in quest’ultimo periodo. So solo che voi avete chiesto aiuto perché parte di questi problemi sono nati da un’attività partigiana intensa, anomala e che necessita di adeguate contromisure. La richiesta di questo aiuto è giunta sulla mia scrivania, e sono stato io che ho deciso, personalmente, di venire qui a verificare in quale maniera posso aiutarvi. Io mi trovo qui solo per questo scopo. Non ho alcun incarico ispettivo specifico relativo a eventuali critiche al vostro comando in questa situazione.”

La tensione si allentò percettibilmente, anche se nessuno volle cambiare espressione. Era chiaro che tutti speravano che non ci fossero secondi fini dietro a questa missione, ma l’arrivo di quell’ufficiale tanto vicino al Führer aveva fatto temere il peggio.

Ebbe ancora il tempo di essere accompagnato nella sua camera, un sottufficiale mostrò i servizi e il piccolo ufficio nel quale avrebbe potuto sistemare i suoi incartamenti, e infine venne convocato per cena nel quadrato ufficiali della divisione. La differenza, rispetto a Berlino, era enorme, almeno per quanto riguardava la qualità del cibo e le comodità degli ambienti. Però l’atmosfera era quella di una comunità, piccola e fin troppo sobria, ma solida e comunque molto unita; passato il primo momento di sospetto, tutti lo accolsero in maniera estremamente corretta. Si sentiva ugualmente a disagio, ma questo sarebbe passato col tempo.

Dopo cena, si dedicò a studiare il fascio di carte che gli aveva passato l’aiutante del Gruppenführer, con la struttura generale della 11° Waffen-SS Panzerdivision Nordland.

 

Stab der Division

SS-Panzergrenadier Regiment 24 (SS-Grenadier Regiment 1) Denmark

SS-Panzergrenadier Regiment 23 (SS-Grenadier Regiment 2) Norge

SS-Panzer Abteilung 11 Herman von Salza

SS-Panzer Artillerie Regiment 11

SS-Stürmgeschutz Abteilung 11

SS-Panzerjäger Abteilung 11

SS-Nachrichtung Abteilung 11

SS-Pionier Battalion 11

SS-Nachrichtung Abteilung Truppen 11

SS-Nachschub Truppen 11

SS-Aufklärungs-Abteilung 11 (“Swedenzug”)

SS-Instandsetzungs Abteilung 11

SS-Flak-Abteilung 11

SS-Wirtschafts Abteilung 11

SS-Kriegsberichter-Zug 11

SS-Feldgendarmerie-Trupp 11

SS-Feldersatz-Battalion 11

SS-Bewährungs-Kompanie 11

SS-Sanitäts-Abteilung 11

SS-Werfer-Battalion 521- as part of III SS-Panzer Corps

SS-Jäger-Regiment 11

 

Comandante: Gruppenführer Fritz Scholz, dal 05/1943

 

Era una divisione forte e ben equipaggiata. Il rinforzo concesso al Panzer-Abteilung ‘Von Salza’ l’aveva effettivamente trasformata in una Panzerdivision, e lo scudo dello stemma divisionale aveva acquisito la ‘tacca’ in alto a sinistra che contraddistingueva queste unità. Era contento di essere lì.

 

Berlino, 15 Marzo, Ministero della Marina

 

“Sì, è andato in Russia, ammiraglio” disse il maggiore, stando sull’attenti davanti alla scrivania. Da quando era successo l’incidente dell’attentato al ‘Condor’, i rapporti fra i due ufficiali erano estremamente formali, e il maggiore ne soffriva molto.

“Già. So che è attualmente a Rakau, aggregato come ‘specialista per la raccolta di informazioni’ alla 11° PanzerdivisionNordland.’ Un posto piuttosto pericoloso.” Il maggiore, che in cuor suo sperava che fosse abbastanza pericoloso da eliminare per sempre Straub dalla faccia della terra, tacque, impassibile.

“E’ andato volontario. Lo sapevate?”

“No, ammiraglio. Che abbia qualcosa a che vedere?...”

“Credo proprio che questo non abbia nulla a che vedere con quel misterioso segreto di cui ci ha parlato il ‘Capitano’, maggiore. Riposo.” L’ufficiale si rilassò un attimo. “Adesso ci sarà più difficile seguirlo, naturalmente” osservò l’ammiraglio, allungandosi più comodamente nella sua poltrona. “Sedetevi, maggiore. Mettetevi tranquillo. Speriamo che quei maledetti russi non ce lo facciano fuori prima che ci possa dire cos’era questo segreto tanto importante...” Continuò, aspirando profondamente il fumo della sua sigaretta.

 

Rakau, Marzo-Aprile

 

Muovendosi con tutta la cautela necessaria per evitare di creare attriti con gli altri ufficiali, Straub iniziò dal 16 marzo a reclutare dei volontari per il lavoro che doveva svolgere. Ne trovò subito una dozzina, e fra gli ufficiali e sottufficiali che si presentarono volontari per questo compito ne individuò alcuni che gli sembrarono abbastanza validi. A due di questi, in particolare, andarono affidati i compiti più faticosi, qual era l’interrogatorio vero e proprio dei prigionieri. Straub non voleva assolutamente interessarsi di questo, se non come regista a distanza. Il suo compito, come mise subito in chiaro, era l’analisi di ciò che l’interrogatore sarebbe riuscito a estrarre dai prigionieri.

“Io vengo da Berlino” disse Straub a mò di preambolo, guardando bene i suoi uomini, in parte tedeschi, in parte danesi, “e so bene che questo è un fronte difficile, duro, dove non sempre si mantengono le regole della correttezza. Lo capisco. Spero comunque che non mi metterete nella condizione di dovere intervenire nel corso dei nostri interrogatori. Sono ancora convinto del fatto che un prigioniero di guerra deve essere rispettato in accordo alle convenzioni internazionali, almeno fino a quando non è dimostrato che si tratta di un partigiano. In questo caso le convenzioni internazionali decadono e avrete mano libera per estrarre qualsiasi informazione da lui. In caso di un crimine accertato non ci saranno né dubbi né pietà. Fino a che non si arriva alla certezza della colpevolezza di un uomo, spero che vorrete aderire a queste mie indicazioni.”

La discussione proseguì per qualche minuto e i militari chiesero alcuni chiarimenti. Sostanzialmente, nulla di particolare, se non una certa perplessità quando Straub affermò che interrogare solo i soldati fatti prigionieri rappresentava una limitazione del loro raggio d’azione, e che la sua intenzione era quella di procedere a interrogatori anche nei villaggi vicini. L’Oberscharführer appena reclutato espresse, sia pure con molta reticenza, la sua diffidenza nei confronti di questa possibilità: i villaggi, disse, sono pieni di partigiani. Entrarci potrebbe dire saltare immediatamente su una mina.

“Certamente queste sono possibilità che non vanno sottovalutate”, replicò Straub, diplomaticamente. “Vi assicuro anche che non sono venuto qui a Berlino per saltare su una mina, e soprattutto non ho intenzione di andarmela a cercare. Però se sarà necessario dovremo andare a cercare i soggetti da interrogare nelle loro case, perché come avete detto voi, questi villaggi sono pieni di banditi. Ed è là che, in caso di necessità, dovremo andare a cercare. Se sarà necessario, la casa gliela faremo crollare in testa, per poi tirarli fuori e interrogarli.”

La risposta di Straub piacque ai suoi uomini. Era chiaro che loro si aspettavano esattamente questo tipo di atteggiamento senza troppe delicatezze; avevano paura che quel “guerriero da scrivania” proveniente da Berlino avrebbe avuto remore, osservazioni, avrebbe cercato di controllarli. Non sapevano molto di quell’ufficiale, ma era giovanissimo, di grado molto elevato, pieno di decorazioni. Dicevano che dietro di lui ci fosse Heydrich in persona, ma anche una vita di tragedie ... Certo, fisicamente non era particolarmente dotato, aveva un’espressione tranquilla e non urlava mai. Ma era chiaro che, se il Führer gli aveva personalmente concesso quelle decorazioni, quello si era saputo, c’erano delle ottime ragioni.

Nei giorni seguenti, Straub e il suo piccolo gruppo, che poi andò gradualmente ampliandosi raggiungendo la ventina di unità, si conobbero un po’ meglio. Le chiacchiere da trincea, le indiscrezioni e i pettegolezzi fecero finalmente arrivare fino ai militari qualche notizia in più su Straub, su quello che aveva fatto, qual era stata la sua funzione nella grande operazione che, l’anno prima, aveva messo in crisi l’aviazione alleata e aveva messo un fermo, anche se probabilmente solo temporaneo, alla guerra. Il fatto poi che lui stesso avesse richiesto di venire sul fronte orientale, il più duro e difficile di tutti, anziché rimanersene dietro la scrivania a Berlino, come sarebbe stato suo diritto, ne aumentò enormemente il prestigio nei confronti dei suoi uomini e anche degli altri ufficiali, anche se qualcuno sospettava ancora che dietro al suo arrivo ci fosse un piano organizzato dai servizi di sicurezza per qualche maligno scopo ancora ignoto; qualcuno, da Berlino, si premurò anche di fare sapere agli ufficiali della Nordland qualche dettaglio sulla dura contestazione di cui Straub era stato fatto oggetto da parte dei comandanti supremi dell’esercito, poche settimane prima, sottintendendo che la sua voglia di andarsene sul fronte orientale era legata anche e soprattutto al fatto che l’aria a Berlino, per lui, stava diventando irrespirabile.

Straub, invece, imparò molto di più, e rapidamente. E imparò che cos’è la guerra vista da vicino. Era troppo bello vedere le battaglie filmate per i cinegiornali nei cinematografi di Berlino: battaglie eroiche, pulite, dove i buoni vincono e i cattivi, russi, inglesi, perdono senza possibilità di dubbio. La guerra che si vedeva sugli schermi prima dei film era una guerra pulita, quasi estetica, suggestiva. Quella vera, invece, era tutt’altra cosa, era sporca, brutta e drammaticamente priva di qualsiasi nobiltà. Più rapidamente di quanto non avrebbe creduto possibile, Straub imparò a conoscere la durezza delle trincee, la mancanza di sonno, l’impossibilità di curarsi, di lavarsi, di radersi; la difficoltà anche solo di trovare le uniformi estive dopo avere portato per settimane o mesi quella invernale, mangiò il rancio dei soldati di prima linea, utilizzò, nelle trincee, i miserabili buchi per terra che erano le loro latrine.

Vide i feriti, operati alla meglio dai chirurghi nelle tende che facevano da ospedali di prima linea, le amputazioni, il sangue, la cancrena. In pochissimi giorni, Straub capì che quella guerra era tutta un’altra cosa rispetto a quello che gli avevano sempre raccontato. Era anche tutta un’altra cosa rispetto a quella che aveva visto combattere nei cieli d’Europa dai suoi amici cacciatori notturni, da quegli aviatori sofisticati, arditi ma in fondo nobili, quasi aristocratici, che andavano a caccia dei quadrimotori inglesi nei cieli sopra ad Amburgo o Brema. Qui i soldati vivevano nel fango, morivano nelle paludi, pativano per malattie prese in zone malsane dove nessuno, per la più elementare logica umana, avrebbe dovuto andare. E quando arrivava l’assalto del nemico, questi uomini sporchi, disperati, lontani migliaia di chilometri dalla loro casa e dalle loro famiglie, si alzavano, combattevano, uccidevano o venivano uccisi, tutto in nome di una terra che non era la loro, che non gli apparteneva, che sembrava rigettarli già negli odori, nella difficoltà con la quale si faceva esplorare e capire. Erano, tutti loro, solo un corpo estraneo per la grande Russia, e Straub lo aveva capito. Ora c’era il rigetto, il grande organismo nazionale stava pian piano ricacciando fuori questo corpo estraneo, con le buone o con le cattive maniere, anzi ormai solo con le cattive.

Gli altri ufficiali della Nordland lo guardavano con sempre maggiore sospetto. Perché se ne andava nelle trincee, anziché starsene con loro, al comando centrale? Era vero che Straub era partito da Berlino ed era arrivato in Russia dopo un colloquio diretto, personale, a quattr’occhi, proprio con il Führer? Com’era possibile credere che quella fosse una decisione sua, volontaria? Non era forse lui uno degli ‘ispettori speciali’ del Führer? E una volta arrivato lì, perché se ne andava in fondo al fango delle trincee, a cercare gli accampamenti remoti, a vedere le truppe in prima linea, anziché pranzare al quadrato ufficiali? Certo, non era mensa a cui erano stati abituati alla scuola allievi, ma era sempre meglio che dividere la ciotola di rancio della truppa. Eppure, Straub ogni tanto lo faceva, e si vergognava quasi del fatto che i soldati ne fossero tanto stupiti. Per lui, che veniva da una famiglia di contadini, era una cosa naturale, ma non riusciva a essere disinvolto in queste situazioni. Forse gli mancava l’istintiva arroganza dell’ufficiale di carriera, o forse il suo lato umano, che era sempre pericolosamente in agguato, lo rendeva più debole, più vulnerabile di fronte alle miserie umane.

Non si poteva fare nulla per migliorare la situazione, e lo sapeva bene. La vita del soldato di prima linea era così, e i combattimenti più duri erano forse quelli che si facevano giorno dopo giorno, con il logorio continuo causato dai mille piccoli assalti di un nemico che si stava riorganizzando, premendo su di loro sempre di più, da tutte le parti. Ma c’era anche il problema di essere rimasti con pochi rifornimenti, con una disorganizzazione nelle retrovie e nel settore degli approvvigionamenti che sicuramente non faceva onore al buon nome della Germania. I soldati combattevano col fango, col freddo intenso per i quali erano poco equipaggiati, con spaventose carenze igieniche che portavano malattie e pidocchi. Tutto questo, lui lo riferiva puntualmente in brevi, concisi rapporti che poi spediva direttamente a Berlino. Erano destinati ai suoi due comandanti diretti, solo a Kaltenbrunner e Heydrich, ma certamente avrebbero avuto un’eco abbastanza ampia. E poi per il 20 Aprile era previsto il suo ritorno a Berlino, e così avrebbe potuto riferire di persona.

 

Per dieci giorni, Straub proseguì il suo continuo e diligente lavoro di ricerca e di esame dei rapporti. Seguì qualche interrogatorio, assistette a varie operazioni di ‘pulizia’ nei villaggi circostanti, ordinò, con circospezione, le sue prime esecuzioni. Era preoccupato di mantenere una certa correttezza in queste decisioni, di mandare sulla forca solo i criminali presi con le mani nel sacco; in pratica, solo coloro che erano stati trovati in abiti civili a sparare alla schiena dei soldati tedeschi. Non era un lavoro facile: la prima volta che vide dondolare a una forca un uomo condannato da lui ebbe un senso di profondo malessere. Lui, responsabile della morte di un uomo! Sarà stato vero? Quel russo appeso a un palo, morto, aveva davvero meritato di morire?

Non c’erano risposte a queste domande. Sapere che dall’altra parte i russi stavano facendo più o meno la stessa cosa con i loro stessi compatrioti rendeva in un certo senso ancora più difficile la gestione di questa specie di rudimentale giustizia. Però quella era una cosa da fare, in fondo lui era lì per quello, e il comandante generale della Nordland espresse ben presto un parere completamente positivo sull’efficacia del suo lavoro. Nel leggere il rapporto che avevano inviato a Berlino, confidenziale, ma che naturalmente era stato ritrasmesso immediatamente in maniera altrettanto confidenziale, Straub non poté evitare di compiacersi del fatto che il Gruppenführer Scholz dopo una sola settimana lo riteneva già un elemento indispensabile al mantenimento dell’ordine nella zona, e quindi un ‘prezioso acquisto’ della divisione.

Straub sogghignò fra sé nel leggere questo rapporto, pensando che forse queste espressioni di lode, di sincera soddisfazione per il suo operato, dipendevano probabilmente in parte anche dall’ansia con la quale era stato visto il suo arrivo. Indubbiamente molti credevano che dall’RSHA potesse arrivare solo un pericoloso giustiziere capace di qualsiasi nefandezza. Non era forse lui, Straub, il pupillo del grande Führer, dello stesso Heydrich? Ma, alla fine, le sue azioni erano effettivamente risultate rivolte solo contro i russi e i loro alleati, e tanto bastava ai generali, assieme al sollievo provato, per promuoverlo al rango di ‘elemento indispensabile’.

 

La collaborazione di Scholz consentì a Straub di ampliare gradualmente il suo piccolo gruppo di fuoco personale, che amava chiamare ‘Kommando Straub’ e che alla fine di marzo contava 20 unità fra veterani e giovani soldati tedeschi, svedesi e danesi, che agivano per conto suo nella ricerca di elementi ‘pericolosi’ sul territorio. Avevano buone basi tecniche e raggiunsero subito discreti risultati.

Un problema assillante per la loro sicurezza era costituito da delle potenti trasmissioni radio con le quali alcuni agenti russi inviavano notizie che permettevano di coordinare le operazioni dei partigiani in maniera molto pericolosa per i tedeschi; non si riusciva a capire dove fosse la stazione trasmittente. Per Straub, una volta che ebbe capito che funzione aveva questa stazione, trovarla divenne un impegno prioritario. Quindi convocò una riunione informale, nel pomeriggio del 28 Marzo, proprio per discutere con i suoi collaboratori che cosa si poteva fare per rintracciare e, possibilmente, distruggere, questa stazione.

“Il problema, Standarteführer, è che i banditi hanno già imparato che qui attorno hanno molte difficoltà. Per questa ragione, si sono ritirati più a est e, probabilmente, a quanto ci si dice sul territorio, hanno delle basi a Minsk. Forse la stazione radio che cerchiamo è lì.”

“A Minsk? Ma non è in mano nostra?” replicò Straub, stupito.

“Non proprio. L’Armata Rossa non è ancora entrata, anzi, è distante ancora alcuni chilometri, ma le nostre truppe l’hanno praticamente abbandonata, proprio perché all’interno di quella città abbiamo riportato delle perdite molto gravi, negli ultimi giorni. Quindi ufficialmente è nostra, ma in realtà sappiamo benissimo che i russi, lì dentro, la fanno da padroni.”

“Se i banditi si sono concentrati nella città, perlomeno non ci verranno a rompere le scatole qui” osservò Straub.

“Sì, certo,” replicò l’Oberscharführer, un esperto della lotta antipartigiana che era anche stato, per un breve periodo, nella 36ª divisione SS del Brigadeführer Dirlewanger, in Polonia, “ma in questo modo noi rimaniamo qui, loro sono là, e non riusciremo mai a prenderli. Se per ipotesi avessero impiantato quella famosa radiotrasmittente proprio nella città, ad esempio dentro al sotterraneo di uno dei palazzi del centro in cemento armato, difficilmente si potrebbero andare a prendere, e anche gli eventuali bombardamenti aerei o di artiglieria non farebbero granché. Se sono attrezzati bene, possono rimanere interrati lì per un po’ di tempo, e nascosti, magari due o tre giorni, una settimana, e quando il bombardamento è finito tornano fuori.”

“Possiamo prenderli per fame, dunque” osservò il giovane SS-Untersturmführer, un volenteroso ufficiale appena arrivato da Amburgo ma non ancora molto esperto della situazione. L’Oberscharführer cercò di utilizzare il massimo rispetto, ma lo guardò di traverso dicendo “Untersturmführer, quelli che si potrebbero nascondere dentro a quelle cantine possono sopravvivere anche solo mangiando i topi che passano e bevendo l’acqua piovana. Non hanno bisogno di molto di più, e si accontentano di quello che trovano. Per stanarli, bisogna andare a tirarli fuori con le bombe, la fame non è un argomento sufficiente.”

“Senza dubbio, senza dubbio” disse Straub, pensoso. “E se andassimo a prenderli? Voglio dire, Oberscharführer, voi sapreste dirci dov’è che potremmo trovarli e quindi tirarli fuori dalle loro fogne? Sono sicuro che quegli elementi sono in diretto contatto con l’Armata Rossa, potrebbero darci parecchie informazioni.”

L’uomo sorrise, aveva lunghi denti gialli, da lupo. Da veterano di troppi anni di guerra, pensò Straub. “Certamente, io so, o almeno credo di sapere, dove potremmo trovarli. Però non è una passeggiata, e inoltre credo che il comando della Divisione avrebbe delle forti perplessità ad autorizzare un’operazione di questo tipo. E, detta come va detta, con il dovuto rispetto”, continuò il massiccio Oberscharführer bavarese, “è una missione sicuramente molto pericolosa.”

Nella stanza che utilizzavano come rifugio e ufficio del loro piccolo gruppo, nel bunker secondario accanto a quello del comando divisionale, cadde un silenzio profondo, che durò più di un minuto. Straub pensava, gli occhi rivolti verso il basso, verso il piano della sua scrivania, le mani giunte davanti a sè, la faccia aggrottata. L’Oberscharführer e l’Untersturmführer si scambiarono una rapida occhiata, ma non si azzardarono a riprendere la parola. Il giovane colonnello stava evidentemente prendendo la sua decisione, non si doveva interromperlo.

“Inutile star qui a pensare” disse infine, lentamente, Straub. “Se i banditi sono là, e non si azzardano più a venire qua, abbiamo già fatto un buon cinquanta per cento del nostro lavoro. Ma sarebbe ancora meglio farne di più, di questo lavoro: e per far questo dobbiamo andare là, a stanare quei banditi. Cercherò di sentire dall’aiutante maggiore del comandante se è effettivamente indispensabile richiedere un’approvazione esplicita” aggiunse Straub, che sapeva bene che quella autorizzazione non sarebbe stata data volentieri, “eppure bisognerà cercare di farlo. Altrimenti, rischiamo di trovarci isolati, e di avere dietro alle nostre spalle sempre quei banditi. E poi ci servono altri dati sui movimenti dei russi. E questi dati sono invece l’unica cosa che realmente importa.” Detto questo si alzò, i due uomini si alzarono subito rapidamente, salutarono e uscirono. Straub tornò a sedersi, trasse fuori da un cassetto una mappa delle zone di Minsk e si rimise a esaminarla. Calcolò rapidamente la distanza fra il loro comando e la città, e pensò che forse era una stupidaggine. Ma in fondo tutta la guerra è una stupidaggine, si disse con amarezza, e ritornò ai suoi calcoli. Voleva dimostrare anche agli altri ufficiali, a quelli che, lo sapeva, lo consideravano solo un ‘guerriero da scrivania’, che poteva essere bravo quanto loro. Che avrebbe fatto un colpo importante.

 

“Ho saputo che avete richiesto l’autorizzazione per un’operazione nella zona della città di Minsk”, disse il generale Scholz. La sua voce tradiva il suo poco entusiasmo per questa idea.

“Sì, Gruppenführer, dobbiamo trovare il posto dove si annidano i banditi a cui stiamo dando la caccia. Pensiamo che siano in realtà pochi, anche se discretamente bene organizzati, e hanno quasi sicuramente una ricetrasmittente. Proprio questa radio è l’obiettivo principale. Eliminare in maniera permanente i banditi ha un senso solo se riusciremo a trovare e distruggere la loro stazione radio, e questa può essere solamente in un edificio abbastanza grande da avere ancora l’elettricità o, più facilmente, un gruppo elettrogeno. Una cosa del genere può essere solo nella città, in centro, forse in uno degli edifici precedentemente occupati dalla stazione radiofonica o dall’azienda elettrica del luogo. Quindi è là che dobbiamo andare, se vogliamo spezzare il flusso di informazioni che dalla città arriva all’Armata Rossa.”

“Sì, certamente avete ragione, non c’è dubbio che deve esistere una comunicazione particolarmente efficace, e l’idea che si trovi nella città è plausibile. Però dovete ricordare che parliamo di un’area molto pericolosa, voi sapete che insidie nasconda una città nella quale si annidano tanti banditi” disse il generale, scuotendo la testa, come se parlasse con un bambino disubbidiente. In effetti, questa richiesta era perfettamente ragionevole da un lato, dato che permetteva di andare alla ricerca di quella che era probabilmente la spina nel fianco di tutta la divisione e di quel fronte, per i tedeschi, da almeno quattro settimane.

D’altra parte, il Gruppenführer era un militare esperto, e sapeva bene che niente è più mortale, in guerra, di una città diroccata dietro ai cui muri smozzicati si nascondano dei combattenti disperati ma convinti di lottare fino alla morte per la propria causa. Ad aggravare le sue difficoltà per dare il suo assenso, c’era proprio la particolare posizione dell’uomo che gli stava chiedendo questa autorizzazione. Era chiaro che Straub stava chiedendo questa autorizzazione con ragioni tecniche e professionali impeccabili, e forse questa era un’operazione che sarebbe stata da fare già da lungo tempo. Però se quel giovane Standarteführer fosse caduto in qualche imboscata e fosse andato perduto nell’operazione nel centro della città, la testa del comandante della divisione, la sua testa, sarebbe stata la prima a rotolare, e non solo metaforicamente. Il Führer avrebbe sicuramente chiesto conto del perché uno dei suoi uomini più brillanti era stato mandato allo sbaraglio in una trappola senza adeguata copertura, e non ci sarebbe stata spiegazione valida di fronte a questa domanda...

“Avete già fatto un piano?” Chiese il generale, come per prendere tempo.

“No, un piano vero e proprio non l’abbiamo” replicò Straub, con calma, “ma credo che potremo studiarlo abbastanza rapidamente, una volta che avremo la vostra autorizzazione. L’unica cosa che credo di poter dire è che vorrei utilizzare un gruppo abbastanza piccolo di uomini, due mezzi corazzati al massimo, in maniera da avere tutta l’agilità possibile. E non vorremmo attirare su di noi troppa attenzione, quindi vedremo come e quando partire e con che copertura. Certamente avremo bisogno di copertura aerea, soprattutto al ritorno, quando sicuramente gli Ivan si saranno accorti di noi e quindi probabilmente ci correranno dietro, o comunque ci spareranno nella schiena.”

Il generale si avvicinò alla grande mappa stesa sul tavolo principale, quella sulla quale si stavano preparando le operazioni da effettuarsi nelle ore successive. La distanza dalla città era abbastanza ragguardevole, ma tutto sommato si poteva colmare in un paio di ore di marcia. Era senz’altro possibile assicurare una copertura, eventualmente anche aerea. L’aiutante maggiore suggerì di effettuare un movimento diversivo, sotto forma di un attacco di medie dimensioni, poco più a nord; ciò avrebbe sicuramente permesso di distrarre le forze russe, concentrando l’artiglieria su un altro settore e avrebbe quindi permesso alla sparuta pattuglia di avvicinarsi con minore rischio. Decisero che un paio di carri armati MkIV avrebbero potuto fornire un buon appoggio di artiglieria.

La discussione andò avanti per circa un’ora. Straub, con il suo giovane Untersturmführer, suggerì di fare questa breve puntata in città all’alba, approfittando del fatto che la luce era probabilmente già sufficiente per viaggiare abbastanza tranquilli sulle accidentate strade di quel settore e suggerendo di fare comunque un robusto sbarramento di artiglieria per tutta la notte precedente, in maniera da invitare tutti a dormire nelle prime ore del mattino. L’idea venne accolta dal Gruppenführer con qualche perplessità, ma alla fine dette il via libera. Lo sbarramento di artiglieria venne programmato per la notte seguente e di mettere in programma la spedizione del ‘Kommando Straub’ per l’alba di mercoledì.

 

Minsk, sabato 1 aprile

 

Il mese di aprile, in quella zona della Russia, non era molto attraente. Per Straub, che era nato e cresciuto nella verde Baviera, dove in quel mese la natura si risveglia in maniera fertile e corale, il fatto che fosse ancora freddo, buio, che la campagna rimanesse ostile e nuda, con un suolo grigio, indurito dal gelo, era il miglior segnale del fatto che erano su un territorio nemico, sgradevole. Non gli piaceva, la Russia, eppure per qualche motivo lui voleva rimanere lì. Sapeva che era il posto dove c’era più bisogno: dopo tutto era l’unico vero fronte aperto in Europa, visto che in Italia era tutto fermo e i generali dell’Oberkommando Heer avevano categoricamente escluso che, nel 1944, gli angloamericani potessero provare ad attaccare la ‘Fortezza Europa’ sulla costa occidentale della Francia.

I preparativi per la piccola “spedizione” erano andati avanti speditamente. Nel corso dell’intera giornata di martedì erano stati trovati due veicoli blindati e una Kübelwagen, due carri armati MkIV, varie mitragliatrici pesanti e leggere, munizioni. L’Oberscharführer aveva insistito perché si portassero dietro una quantità elevata di esplosivo, con il quale, aveva detto, potevano far saltare i palazzi del centro dove probabilmente si asserragliavano i ‘banditi’. Una volta crollato l’edificio, se c’erano ancora delle aperture praticabili si potevano saturare con gas venefico, ufficialmente proibito ma ancora largamente utilizzato su quel fronte da ambedue le parti. Con questo, l’Oberscharführer era sicuro di poter bonificare l’area abbastanza rapidamente. Il tenente era meno sicuro, ma essendo giovane e abbastanza inesperto non discusse più di tanto, si limitò a curare i preparativi di sua competenza per la preparazione dell’organizzazione tattica sul campo dell’unità.

Era tutto segreto, non si doveva fare sapere a nessuno, nei limiti del possibile, dove si sarebbero diretti. Il sospetto di Straub era che esistesse una talpa all’interno dello stesso comando della divisione. Era tutto da verificare, ma non era il caso di prendere dei rischi. Così si decise di dare una destinazione in realtà falsa, stabilendo un villaggio a pochi chilometri dalla città come l’obiettivo ufficiale del raid, e di dare le coordinate dell’eventuale copertura solo al generale comandante e al suo aiutante maggiore, che avrebbero provveduto a trasmetterli all’intero comando e alle unità operative non appena avessero richiesto aiuto.

 

Tre anni di battaglie avevano ridotto la città di Minsk a un mucchio di macerie. Il primo assalto tedesco, nel 1941 ne aveva distrutto una buona parte, poi gli stessi tedeschi si erano occupati di distruggere le statue di Stalin con le mine che avevano trovato nella città, facendo saltare con altri esplosivi gli edifici del Partito Comunista. Poi i russi avevano tentato un primo contrattacco, con violenti scontri che erano durati a lungo nella città e tutt’attorno: i cannoni pesanti e le mine antiuomo e anticarro disseminate ovunque avevano fatto il resto. Minsk, che ufficialmente poteva essere considerata in mano tedesca ma era in effetti terra di nessuno, era ora un immenso deserto da cui emergevano palazzi mezzi distrutti, facciate vuote, mucchi di mattoni spezzati ed enormi frammenti di cemento armato disseminati ovunque. Solamente entrare nella città, evitare i campi minati e le trappole esplosive lasciate dai russi, farsi strada in quel deserto spettrale cercando di tenere gli occhi aperti per localizzare i nemici in uniforme o quelli in abiti civili era già un esercizio di grande fatica nervosa per Straub e i suoi uomini.

Passarono lo scalo ferroviario con i binari delle ferrovie Mosca-Brest e Libava-Romno, avviandosi verso il centro della città, cercandone gli edifici più importanti, il palazzo del Partito Comunista che trovarono completamente sventrato dalle bombe e dalle cariche esplosive, passando poi a poca distanza dal palazzo dell’Armata Rossa. Il loro piccolo convoglio passò quindi davanti alla Biblioteca Nazionale, il Teatro dell’Opera, quindi l’Accademia delle Scienze. Prima delle 9, la loro piccola colonna aveva attraversato la periferia, arrivando davanti ai resti del Palazzo del Governo.

Dove c’era stato questo Palazzo, ora c’era solo un enorme cratere e pezzi di muro sbriciolato tutt’attorno; le macerie erano disseminate qua e là, come relitti di un naufragio, e in giro c’erano solo poche persone, alcune donne anziane, nessun bambino, naturalmente niente uomini. Le donne fuggirono non appena riconobbero le facce dure dei militari tedeschi che scendevano dalle camionette, alcune facendosi il segno della croce.

I militari del ‘Kommando Straub’ si misero cautamente in posizione, sistemando le armi a raggiera, in maniera da tenere coperta l’intera area nella quale si trovavano. I loro occhi esplorarono nervosamente tutto quello che li circondava, in particolare le finestre, dalle quali, lo sapevano bene, poteva all’improvviso apparire la canna di un fucile di un cecchino, che poteva uccidere uno di loro in una frazione di secondo e poi sparire nell’ombra. Ma, al momento, il posto sembrava relativamente tranquillo.

Risalirono sulle autoblindo e ripresero, lentamente, la loro marcia. Era chiaro che, se ci fossero stati dei partigiani lì attorno, la loro presenza sarebbe stata loro comunicata, e la loro colonna sarebbe stata seguita e rintracciata continuamente. In un certo senso, questo era parte di ciò che dovevano fare, sollecitare l’interesse di partigiani nemici per costringerli a esporli, e per fare un passo falso e quindi rintracciarli ed eliminarli.

Erano appena passati dietro al Palazzo del Governo quando uno dei soldati a bordo della seconda autoblindo vide qualcosa di interessante.

“Un’antenna”, disse indicando il tetto di una casa alta, ancora relativamente intatta, e in effetti sul tetto, a mala pena visibile dalla loro angolazione, c’era un’antenna da radiotrasmissioni. Le autoblindo non si fermarono, Straub dette ordine di tirare diritto, dicendo al tenente “Se dentro quella casa c’è davvero una radio trasmittente, probabilmente sapevano già che stavamo arrivando e si aspettano che ci fermiamo. Meglio andare avanti con le armi in pugno e attaccarli subito. Abbiamo anche i carri, come copertura.”

L’Oberscharführer, che era un veterano, non apparve convinto. “Perdonate, Standarteführer, ma forse sarebbe più conveniente organizzare un attacco dal retro, e, comunque, studiare bene prima la situazione.”

Straub si era fissato in testa di fare alla sua maniera, l’opposizione del Oberscharführer lo indispettiva, anche se non voleva farlo vedere. E poi non voleva fare vedere agli altri del ‘Kommando’ che prendeva ordini da un sottufficiale. “Ho detto di andare avanti, Oberscharführer. I due carri armati ci proteggeranno da dietro mentre assaltiamo la casa.” Il comandante del primo carro annuì, e il sottufficiale non potè fare altro che obbedire all’ordine. Stesero insieme un primo piano d’attacco: gli uomini della prima autoblindo si sarebbero spostati dietro al palazzo, l’Oberscharführer e i suoi sarebbero andati all’assalto della porta laterale. I carri armati avrebbero tenuto sotto il fuoco dei loro cannoni da 75 millimetri sia il palazzo che la piazza.

I granatieri si appostarono dietro agli angoli delle case e il tenente, nervosamente, si affacciò verso la piazza. Sembrava vuota. Fece un segno, alzando la pistola; l’Oberscharführer guidò dieci dei suoi uomini verso l’altra parte del palazzo. Straub, teso, guardava le finestre della palazzina, pensando che da un momento all’altro potessero comparire delle armi, delle figure umane, ma a questo erano pronti: i soldati che erano rimasti in posizione accanto all’angolo più avanzato avevano tutti sotto tiro le varie finestre.

Sempre più tesi, i due gruppi di militari si avvicinarono, balzando da un riparo all’altro, verso la porta d’ingresso della palazzina. Il sottufficiale ordinò a uno dei suoi granatieri di sfondare la porta. Il grosso soldato tirò un violentissimo calcio alla porta, che resistette. “Meglio non correre rischi”, disse il sottufficiale, che sparò una raffica sulla serratura della porta. Una volta saltata la serratura, il secondo calcio fece aprire la porta, immediatamente. Ora che la porta d’entrata era saltata, si doveva entrare, ma quello era tutt’altro rischio. Ci potevano essere mine, trappole esplosive, russi appostati negli angoli; l’Oberscharführer, che era un uomo che aveva poca paura, si gettò dentro immediatamente; dietro di lui andarono una mezza dozzina di soldati. Da fuori, Straub vide i suoi soldati affacciarsi a una delle finestre del primo piano. Con una sensazione di sollievo, pensò che forse ce l’avevano fatta.

Poi, improvvisamente, un enorme boato: un’esplosione gigantesca squassò la palazzina, che crollò su se stessa, in un rombo fragoroso, travolgendo nelle macerie quelli che erano entrati. Nello stesso momento iniziarono a sparare nella loro direzione da dietro a un muro e tutti i tedeschi si buttarono a terra, per fortuna la mira degli ignoti cecchini era imprecisa, anche perché la nuvola di polvere sollevata dal crollo della palazzina aveva reso il gruppo dei tedeschi pressoché invisibile.

“Via, via!” Urlò Straub al comandante del carro, che ovviamente non sentiva, ma che autonomamente decise di mettersi in moto. Il carro andò verso la piazza, cercando lo spazio per girare la torretta e puntare il cannone contro il muro da cui venivano gli spari, ma come si affacciò alla piazza comparvero, diritti davanti a loro, due T-34.

Straub si sentì gelare. Non dovevano esserci carri armati a Minsk, quel giorno! Gli avevano detto che i russi erano tutti scappati via e lì c’erano rimasti solo pochi partigiani... Uno dei suoi uomini si abbatté per terra, urlando, una pallottola sparata dal muro dietro di loro lo aveva colpito a una coscia. Perdeva sangue. Mentre uno dei suoi camerati cercava di bloccare l’emorragia con un laccio, Straub, che ora non sapeva più cosa fare, vide con terrore i due T-34 che avanzavano. Uno dei due puntava il cannone direttamente sul MkIV tedesco, che stava girando verso la piazza e non aveva ancora visto i due carri nemici perché erano nascosti dall’angolo della palazzina crollata; il primo dei carri russi fece fuoco mirando alla sagoma del carro tedesco, che si intuiva appena nel polverone del crollo. Il primo colpo del cannone da 75 millimetri rimbalzò sulla corazza del MkIV con un sordo suono di ferro contro ferro, il carro tedesco sbandò, un po’ per il contraccolpo, un po’ per il disorientamento d’aver ricevuto un colpo completamente inatteso. Si andò a fermare contro lo spigolo della casa, come se fosse stato senza guida.

Nel frattempo, alcune figure umane stavano uscendo dalle macerie della palazzina: Straub, con sollievo, riconobbe l’Oberscharführer danese e due dei suoi uomini, barcollanti ma apparentemente in buone condizioni, ma intanto doveva capire cosa fare per neutralizzare chi gli stava sparando da dietro, dalle spalle, e che li teneva inchiodati in quella posizione mentre si avvicinavano i T-34.

Un altro boato fortissimo. Uno dei loro due MkIV era esploso, stava bruciando, colpito simultaneamente dai due carri russi. Aveva appena fatto in tempo a sparare un colpo, che era saltato in aria. Atterrito, Straub si rese conto che erano in una trappola, presi fra due fuochi con i carri russi da una parte, probabilmente seguiti da dei granatieri e qualcuno, forse solo un pugno di partigiani, che li teneva inchiodati in quella posizione sparandogli alle spalle. Si erano cacciati in una trappola!

Uno dei granatieri della Nordland, che non aveva perso la testa, raccolse un Panzerfaust e strisciò verso la piazza, aspettando il momento in cui il primo T-34 avrebbe dovuto girare all’angolo della casa. Poteva girare verso sinistra, e allora avrebbe avuto il fianco scoperto, offerto proprio all’attacco del granatiere; o girare a destra, invece, puntare diritto su di lui, e allora non ci sarebbe stato scampo né per lui né per loro. Fu solo una frazione di secondo, ma a Straub, che stava trattenendo il fiato per l’emozione, sembrò un secolo: il carro russo sembrò esitare, quindi finalmente piegò a sinistra. La bocca del granatiere si piegò in un sogghigno soddisfatto e malefico, il proiettile a carica cava partì con un boato e un sibilo verso il carro russo. Entrò nella fiancata fra i cingoli, proprio sopra alle ruote, ed esplose nel compartimento di combattimento. L’esplosione non fu violentissima, ma il carro sussultò, emise del fumo, e dopo qualche secondo esplose con un fragore violentissimo: erano saltate le munizioni ad alto esplosivo che portava all’interno.

I soldati tedeschi urlarono di gioia, nel vedere il carro saltare; il secondo T-34, prudentemente, fece marcia indietro e iniziò a girare dietro alla parte posteriore della palazzina crollata. Nel frattempo, il secondo MkIV era riuscito a manovrare e con due colpi del suo cannone aveva fatto crollare il muro da dove provenivano i colpi dei cecchini. Immediatamente, gli uomini del ‘Kommando Straub’, trascinati dal sottufficiale danese, si lanciarono verso le macerie che crollavano, urlando, certi di trovare finalmente i partigiani che cercavano. Sparirono nella nube di polvere, mentre Straub, che stringeva nervosamente la sua Walther nella mano destra, provava a indovinare la prossima mossa dei russi rendendosi però conto di non avere la minima idea di quale potesse essere.

Ebbero anche fortuna, perché il secondo T-34 doveva essere pilotato da un guidatore inesperto, e si incagliò fra due grossi alberi; nel momento in cui cercava di fare retromarcia, il MkIV lo inquadrò con il suo cannone da 75 millimetri e piazzò due colpi sui cingoli di destra. Immobilizzato in questa maniera, il T-34 era completamente indifeso o quasi: l’equipaggio lo abbandonò saltando giù dalla torretta.

Gli uomini che si erano gettati all’assalto dei partigiani nascosti dietro un muro ritornarono, dopo pochi minuti, con quelli che avevano trovato. Dalla polvere densa che avvolgeva tutto, e che puzzava un po’ di terra argillosa secca, di polvere da sparo e di metallo bruciato, un po’ di carne umana bruciata, emersero una dozzina di figure: i militari della Nordland spingevano davanti a sé tre figure in abiti civili, ma la sorpresa, per Straub, era che solo uno dei tre era un uomo, seguito da due donne, anzi, due ragazze piuttosto giovani e carine.

L’uomo venne sbattuto a terra, ai piedi di Straub. Aveva un largo taglio sulla fronte, gli avevano già legato le mani dietro alla schiena. Gridava come un ossesso in russo e quando vide che si trovava davanti un ufficiale SS iniziò, con un tedesco stentato, fatto di poche parole che aveva evidentemente imparato a memoria, a urlare i versi pieni d’odio del poeta russo Ilya Ehrenburg, “uccidete ogni tedesco, uccidetelo ancora nel ventre delle loro madri, uccideteli tutti…”, ma non poté continuare perché il danese che aveva distrutto il T-34 con il Panzerfaust gli tirò un violentissimo calcio nello stomaco. L’uomo si piegò in due, cercava ancora di parlare, il secondo calcio glielo diede un caporale tedesco: un calcio forte, cattivo, alla base della schiena. Finalmente stette zitto.

“Parlate tedesco?” Chiese Straub alle due ragazze, che lo guardavano atterrite. “Chi di voi due parla tedesco? Parlate, insomma!” Era nervoso, incazzato. Non poteva nascondersi il fatto che a causa della sua inesperienza aveva mandato allo sbaraglio la sua piccola unità, distrutto un carro armato, perso almeno quattro uomini. Era già un miracolo se non li avevano ammazzati tutti, ma parte della responsabilità per quel disastro era proprio di quei tre russi in abiti civili che stavano ora davanti a lui, erano loro che li avevano bloccati in quel posto esponendoli all’arrivo del carro armato, forse avevano azionato anche la mina che aveva fatto crollare la casa in cui erano entrati i loro camerati... Su di loro, Straub poteva perlomeno scaricare la sua rabbia. Non poteva dare un calcio all’uomo che stava per terra, non l’aveva mai fatto, non ci sarebbe riuscito, ma avrebbe voluto farlo. Una delle due ragazze, con la voce rotta dalla paura, disse, stentatamente “parlo poco tedesco, poco, appena...”

“Perché ci avete sparato contro? Voi non siete soldati. Voi non avete il diritto di spararci addosso. I vostri soldati possono, voi no. Siete dei criminali. I criminali vanno fucilati. Lo sapete, questo?” La ragazza più carina, una morettina coi capelli corti che non doveva avere più di vent’anni, scoppiò a piangere. Non parlava tedesco, ma evidentemente le parole tedesche per criminali, fucilati, spararci addosso le aveva già sentite dire. L’altra, una ragazzona dai capelli castani un po’ più alta, con la faccia lunga piena di lentiggini e un paio di pantaloni da meccanico, di tela blu, impallidì e disse “noi... Non volevamo, è stato lui” disse, tremando, indicando l’uomo a terra. “Ha detto... Ha detto che stavano arrivando i tedeschi, che era nostro dovere spararvi. Ci ha dato un fucile, noi, noi non sappiamo neanche usarlo... E poi ci ha portate qui, dicendo che se non sparavamo a voi lui avrebbe sparato a noi. Ci ha minacciato.”

L’uomo era rimasto steso a terra, piegato in due, gli usciva del sangue della bocca. L’Oberscharführer che aveva rischiato di essere schiacciato dalle macerie della palazzina crollata riapparve in quel momento, era completamente ricoperto di polvere dalla testa ai piedi e aveva perso l’elmetto, ma era vivo e non aveva subito ferite. Guardò Straub, poi l’uomo a terra. Grugnì rivolto al russo, “se quelle radio esistono davvero, questo figlio di puttana deve sapere dove sono, Standarteführer, e visto quello che ha combinato fino a ora, io non vedo l’ora di tirarglielo fuori. Lasciatelo a me qualche minuto, vi assicuro che troveremo qualcosa.” Tirò fuori il suo grosso coltello da combattimento: la sola lama era lunga più di venti centimetri. Le due ragazze trasalirono, la mora iniziò a piangere ancora più forte.

Sogghignando, il sottufficiale si rivolse alle due donne. Gli altri soldati le stavano guardando con la medesima espressione. “Non spaventatevi troppo presto, belle. Arriveremo anche da voi, dopo che avremo castrato questo delinquente” e si chinò sul russo, lo prese per i capelli e li tirò violentemente, facendogli sollevare il capo da terra. “Lo prendo con me qualche minuto, solo qualche minuto. Sono sicuro che riusciremo a farci dire qualcosa di utile, Standarteführer.” Straub annuì. Quel porco non meritava altro.

L’Oberscharführer trascinò via il russo, aiutato da due dei suoi uomini. Lo portarono dietro a uno dei muri mezzi crollati, si sentirono appena dei colpi soffocati, poi un urlo. Dopo qualche minuto, il sottufficiale tedesco ritornò. Aveva in mano il coltello, che era completamente rosso di sangue. Straub avrebbe voluto ribellarsi a quello che era successo, non gli piaceva per niente che gli uomini posti sotto il suo comando se ne andassero in giro a sgozzare prigionieri. Ma se erano in quel casino era perché lui era stato uno sciocco inesperto, ed era proprio stato quell’esperto Oberscharführer a tirarlo fuori dai pasticci. Non poteva certo impuntarsi con loro, adesso, su delle cose tutto sommato secondarie. Quelli erano Banditen. Non meritavano alcuna misericordia.

“Allora?” Disse, semplicemente. L’Oberscharführer annuì lentamente. “Avevate ragione, gli impianti radio questi bastardi ce li hanno davvero, e sono nascosti sotto al Palazzo dell’Armata Rossa. Siccome sembra quasi completamente distrutto, nessuno ci aveva fatto troppo caso, invece sono tutti lì. Abbiamo anche un paio di indicazioni su dove e come entrare.” Sogghignò ancora, la sua larga faccia piatta, che tradiva le sue vicine ascendenze baltiche, si allargò in un sorriso crudele. “Peccato che quel bastardo non sarà con noi a vedere l’ottimo uso che faremo delle sue informazioni... Non era poi troppo resistente, no davvero. Ha parlato subito.” Guardò le due ragazze che piangevano. Era chiaro a cosa pensava. Straub non si oppose, cercò solo di stabilire delle priorità. “Andiamo a far saltare la stazione radio, Oberscharführer, dopo...”

“Va bene, andiamo. Voi due, fatele salire sull’autoblindo, ci faranno compagnia, dopo.” Le due ragazze, con i polsi sommariamente legati dietro alla schiena, vennero fate salire su uno dei blindati, i soldati risalirono sui veicoli e ripartirono, mandando avanti un motociclista come esploratore fino al Palazzo dell’Armata Rossa.

Non fecero altri brutti incontri, ma arrivare fin lì fu una marcia lenta e piena di tensione. I nemici, partigiani o soldati regolari, potevano essere annidati da qualsiasi parte, dietro quei mucchi di macerie che erano stati i palazzi della zona centrale di Minsk. Quando arrivarono all’enorme Palazzo, o a quello che ne era rimasto, si ripararono dietro alle costruzioni circostanti e studiarono quello che potevano fare. L’unica, concordarono tutti, era cercare di capire dove fossero queste radiotrasmittenti e, in mancanza di idee migliori, distruggere tutto a cannonate. Entrare nell’edificio e cercare di catturare qualcuno era un suicidio, questo anche per le trappole, come la palazzina di poco prima, che i russi avevano lasciato dietro di sé.

Le indicazioni che il partigiano russo aveva dato all’Oberscharführer erano preziose. Non bisognava cercare le radio nella parte anteriore del palazzo, ma dietro, negli scantinati a cui si accedeva da una viuzza laterale; le antenne non erano visibili perché erano state piazzate all’interno di un cortile cui in pratica non si accedeva più, ma l’ingresso per la stazione ricevente era abbastanza praticabile. Un piccolo commando di uomini si infilò nella viuzza ed esplorò con circospezione tutte le finestre degli scantinati. Non ci volle molto per trovare le tre finestre che, sia pure malamente riparate, celavano evidentemente degli ambienti in cui c’era ancora dell’attività. Gli esploratori ritornarono da Straub e gli riportarono le notizie di ciò che avevano visto. D’accordo con l’Oberscharführer e il giovane tenente, Straub dette subito il via all’attacco.

Decidere cosa fare fu una cosa molto rapida. La loro piccola spedizione si divise in due parti, la prima, armata di granate e mitragliatori pesanti, arrivò davanti alle finestre, mentre altri passarono silenziosamente verso la porta d’ingresso; i due gruppi attaccarono simultaneamente, buttando delle granate dentro alle finestre sfondate a colpi di mitra, mentre gli altri aspettavano all’uscita dello scantinato quelli che fossero scampati alle granate. Così facendo catturarono tre russi, altri sei rimasero invece uccisi dalle esplosioni. Non c’era nessun altro, lì dentro: gli uomini di Straub presero i preziosi libri dei codici radio, poi tutte le radio furono fatte saltare con delle mine anticarro, i prigionieri caricati brutalmente sui camion, e finalmente poterono fermarsi e riposarsi. Con quel brillante colpo di mano avevano ripulito Minsk da quelle maledette radiotrasmittenti, la cattura dei codici era un colpo straordinario: l’operazione era quindi stata un successo.

Ancora più eccezionale fu il ritrovamento, nei sotterranei del Palazzo dell’Armata Rossa, di una specie di dispensa. C’era ogni ben di Dio, in quelle specie di rustiche ghiacciaie scavate sotto terra; c’erano persino dei quarti di bue, pezzi di agnello e di altra carne. Decisero di fermarsi a riposare lì dentro, preparando un accampamento ben sorvegliato agli angoli da doppie squadre di sentinelle, poi fecero un fuoco nel cortile, dopo aver rastrellato con cura quello che rimaneva dell’edificio.

Un paio di soldati, evidentemente cresciuti in campagna, prepararono dei falò spaccando con una scure tavoli e mobili trovati nel palazzo, aggiungendovi con gioia maligna tutti i ritratti di Lenin e Stalin che riuscirono a trovare. Su quei fuochi misero delle griglie improvvisate su cui iniziarono a cuocere quei grossi pezzi di carne, tagliati alla meno peggio, con le loro baionette, in braciole e bistecche. Erano soldati abituati a stare al fronte da tempo, tutti si portavano dietro un po’ di sale e di pepe, in qualche tasca della giacca, per un’evenienza del genere. L’Oberscharführer, di solito, aveva anche un po’ di strutto, ma questa volta lo aveva finito. Aveva anche altri pensieri e altri appetiti, come i suoi amici. a un certo punto sparì, dirigendosi verso le autoblindo dove stavano le due ragazze che erano state prese prigioniere; Straub sentì dopo qualche tempo, delle grida di donna, che venivano da qualche parte del palazzo, forse da una delle poche stanze ancora praticabili al primo piano.

Non sapeva qual era, delle due ragazze, a urlare, e si impose di non pensarci nemmeno. Le due ragazze avevano sparato loro addosso, l’Oberscharführer e i suoi uomini si vendicavano prendendosi in quella maniera il loro piacere. A Straub queste cose non piacevano, ma non aveva nessuna maniera, e forse nemmeno nessuna ragione, di intervenire. Dopo circa mezz’ora, l’Oberscharführer ritornò, aveva la faccia rilassata, tranquilla. In lontananza, si sentirono altre grida, altri gemiti, ma stavano scemando. Nessuno ne parlò, ufficialmente, nessuno sentiva niente.

“Almeno, non ammazzatele” disse Straub al sottufficiale, senza alzare gli occhi dal fuoco. L’uomo fece segno di sì con la testa.

“Certo che no, Standarteführer. Le prenderemo con noi, state sicuro che non saranno ammazzate. Serviranno ancora” Questo voleva dire che probabilmente sarebbero finite in un bordello da campo, pensò ancora Straub, e questo forse era il meglio che poteva succedere loro. Intanto, dalla divisione chiedevano notizie. Venne fatto un rapidissimo rapporto, stringato, per non essere intercettati.

“E’ meglio ritornare alla base, tenente” disse Straub al suo diretto subalterno, mentre l’Oberscharführer andava a raggruppare i suoi uomini e curava che le due ragazze, rimesse in piedi e rivestite alla meglio, venissero caricate nuovamente sull’autoblindo. Ripartirono dopo avere fatto un’ultima ispezione per assicurarsi che tutto il materiale radio fosse completamente inutilizzabile; sulla strada del ritorno trovarono anche il T-34 che li aveva affrontati sulla piazza principale. Era fermo, immobile, e, scoprirono dopo, vuoto. Non si arrischiarono ad andarci vicino: il loro MkIV superstite si mise in posizione a una distanza di non più di 100 metri e sparò due colpi col suo cannone da 75 millimetri alla corazza frontale del carro russo. I colpi rimbalzarono via, senza alcun effetto apprezzabile. Il comandante del carro tedesco ordinò allora di girare per piazzarsi a lato, ma anche da quella posizione la corazza del T-34 resistette ai proiettili perforanti del MkIV.

Alla fine il carrista decise di passare dietro alla parte posteriore del carro russo. Spararono ancora tre colpi, mirando alla coda, il punto in cui la corazza era normalmente meno spessa, e il carro russo finalmente esplose. Straub rimase comunque impressionato dal fatto che i colpi esplosi dal cannone da 75 millimetri del MkIV non avessero avuto alcun effetto positivo quando erano stati sparati nella parte anteriore e laterale del T-34.

 

Nel tardo pomeriggio di quello stesso giorno Straub si recò al comando della divisione per fare rapporto a Scholz, raccontandogli cosa avevano fatto con il suo ‘Kommando’. Rimase un po’ stupito vedendo che il suo racconto dell’azione, che fu il più imparziale e obiettivo possibile, non suscitò le critiche che lui si attendeva, visto che aveva perso sei uomini e un carro armato, più un camion. In realtà, gli disse apertamente il Gruppenführer Scholz, avere distrutto quella stazione radio era stato sicuramente un colpo magistrale, così come la cattura dei prigionieri russi. Delle donne, Straub non aveva detto nulla, e del resto nessuno accennava mai a questo tipo di ‘prigionieri’, nei rapporti ufficiali.

“La distruzione di quelle radio a Minsk, il ritrovamento dei codici e lo smantellamento di questo nucleo di infiltrazione partigiana ci darà un bel sollievo, Straub, vi siamo molto grati. Forse non è il caso, però, che continuiate a prendervi dei rischi così in prima linea. Sappiamo che avete rischiato la vita. State più attento, in futuro, vogliamo che rimaniate con noi.”

Straub andò a letto, parzialmente sollevato dalle parole del comandante che avevano messo in evidenza tutti i lati positivi dell’operazione. Solo quello importava, il resto, le perdite e i rischi, erano cose di tutti i giorni in quella guerra. Ma lui sapeva che durante quella breve missione aveva commesso molti errori, tutti legati alla sua inesperienza e alla supponenza con la quale aveva affrontato la guerra vera, quella dei granatieri e delle truppe corazzate di prima linea. Era stato un miracolo che la sua superficialità non avesse portato lui e il suo ‘Kommando’ a una tragica fine: lo sapeva bene. Giurò a se stesso di essere più cauto e di accumulare un po’ più di esperienza prima di ripetere simili avventure.

 

Nei giorni successivi, le cose iniziarono ad andare meglio. La pressione dei russi si stava un po’ allentando, e le operazioni del Kommando di Straub procedevano in maniera soddisfacente. Ora la sua piccola unità comprendeva quattordici uomini, e aveva a disposizione i mezzi necessari per effettuare le loro operazioni a medio raggio: rischiose, ma i risultati erano piuttosto buoni. Ogni tre giorni, Straub si curava di spedire un rapporto a Berlino, nel quale esponeva gli ultimi risultati e suggeriva delle soluzioni per i problemi incontrati sul campo. Era un lavoro rischioso, ma almeno gli permetteva di mantenere la sua mente lontana dalle frustrazioni e dai dolori che aveva vissuto fino a quel momento. La terapia serviva: incredibilmente, iniziava a sentirsi meglio proprio sul fronte nel quale si combatteva la guerra più disumana.

La buona riuscita delle sue operazioni lo gratificava, dandogli l’impressione di fare qualcosa di realmente utile per sé e per la sua unità; aveva ormai preso ad abituarsi alla vita del fronte in maniera tutto sommato accettabile, e non sentiva un particolare desiderio di ritornare alla sua vita di ufficio, se non per i periodici controlli della sua attività burocratica che, lo sapeva bene, erano necessari per non trovarsi improvvisamente defenestrato dal corso delle manovre di corridoio di Prinz-Albrechtstraβe.

Proprio per questo teneva le orecchie diritte sui segnali che gli mandavano i suoi collaboratori da Berlino, ma non dovette preoccuparsi di captare delle sfumature particolari per rientrare: la mattina del 10 aprile, infatti, un messaggio di Kaltenbrunner in persona lo richiamava con la massima urgenza a Berlino. Nessun ritardo era accettabile, doveva presentarsi nel suo ufficio per comunicazioni urgentissime la mattina del giorno 11, al massimo il giorno dopo. Non si poteva fare altro che obbedire immediatamente a un ordine così perentorio.

Straub, preparate alla meglio le operazioni che la sua piccola unità doveva condurre nei giorni seguenti, organizzò il viaggio e, il pomeriggio dell’11 aprile volò con il solito vecchio Junkers da trasporto fino a Berlino. Era stato assicurato, in una breve comunicazione con l’aiutante di Kaltenbrunner, che la gravità della questione non riguardava direttamente problemi suoi o del suo lavoro; ma questo, se possibile, aumentava ancora la sua curiosità.

 

672 pagine, legato in brossura, cm 21x14

 

'Aurora' è il mio ultimo romanzo, ed è la naturale prosecuzione di 'The Night Watch', pubblicato nel 1998.

 

Se nel 1944 il Terzo Reich non fosse stato retto da Adolf Hitler ma dal suo naturale successore, Reinhard Heydrich, la storia sarebbe andata diversamente. Michael Straub, braccio destro di Heydrich nel RSHA, scopre un intreccio segreto legato alla mistica esoterica del Reich e dei suoi maggiori esponenti....Inizia un lungo viaggio nell'Europa devastata dalla Seconda Guerra Mondiale fra battaglie, tragedie, errori, atti di eroismo ed atrocità. Il finale, nel Febbraio del 1945, indica la via per una nuova Europa.

 

Stefano Pasini, Bologna, Dicembre 2003

 

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