Stefano Pasini

UNA RAPINA EUROPEA: IL COSTO DEL CARBURANTE

Riprendiamo dall’agenzia ANSA, il 27 Ottobre: “Nuovi aumenti record per i carburanti: l'Api comunica infatti che da oggi la benzina verde e la super aumenteranno di 10 lire al litro, arrivando rispettivamente a 2.205 lire e a 2.290 lire. Nuovo primato anche per il prezzo del gasolio per autotrazione, che sfonda il tetto delle 1.900 lire: il nuovo prezzo - comunica l'Api - sara' di 1.905 lire (+10 lire). Cresce di 5 lire, infine, il prezzo del gpl Api, portandosi al livello di 1.105 lire al litro. (ANSA)”. Un altro passo in avanti nell’aumento del costo dei carburanti per autotrazione, lievitato, negli ultimi mesi, in maniera formidabile. Tutti gli automobilisti ed i camionisti sanno bene quanto questo aumento pesi sui nostri portafogli; non tutti sanno però quanti fattori concomitino ad alimentare la continua e perversa spirale che ha portato i prezzi a crescere in questa maniera vertiginosa. Fatto sta che, secondo le stime del Coordinamento Unitario Autotrasporti, un camion pesante che percorre 120.000 chilometri all’anno si troverà a spendere in gasolio, nei prossimi 12 mesi, 25 milioni di lire di più di quanto aveva speso l’anno scorso; persino un automobilista che usa la sua auto per soli 15mila chilometri all’anno si troverà, nello stesso periodo, a spendere 312mila lire (secondo alcuni, addirittura 400mila) di più dell’anno scorso. Questo è intollerabile, anche perché non dipende, se non in minima parte, da quelli che tradizionalmente vengono indicati come i colpevoli, cioè gli sceicchi e la loro organizzazione, la “Organisation of Petroleum Exporting Countries”, meglio nota come OPEC. Dietro a fattori oggettivi di importanza globale (in primo luogo le tensioni politiche nell'area mediorientale e del Golfo Persico) esistono fattori locali e tendenze opportunistiche che, di queste tensioni, sfruttano ad arte le opportunità speculative, ma c’è un’entità, un vero Grande Fratello, che da questo trae il maggior vantaggio finanziario senza fare in realtà proprio nulla. E’ il maggior responsabile di questo rialzo, e per spiegarlo dobbiamo fare un riepilogo di come nasce il prezzo dei carburanti.

Quella attuale non è la prima crisi petrolifera cui l'Occidente va incontro, anzi, in un certo senso, non si può neppure parlare di vera crisi. In seguito ai grandi collassi del mercato petrolifero (il primo quando l’OPEC, il 19 Ottobre 1973, decretò il famoso embargo in risposta alla guerra del Kippur, l’altro nel 1991, quando l’Iraq attaccò il Kuwait), il prezzo del petrolio andò  realmente alle stelle, fino 40 dollari e più per un barile di greggio; ora si lotta sul filo dei 28-31 dollari per il petrolio arabo (32, 33 dollari al barile per il Brent del Mare del Nord, sempre più costoso per la maggior complessità delle trivellazioni off-shore), con però delle scorte strategiche di maggior portata ed un atteggiamento generalmente meno isterico su questo problema. Due anni fa il barile era sceso a 10 dollari: anche questo livello era però in realtà anch’esso indesiderabile per una molteplicità di motivi. Il primo fra questi motivi ufficiali era l’assoluta necessità di conservare fra i paesi produttori di petrolio l'assetto politico attuale, tutto sommato abbastanza stabile e favorevole all'Occidente, che potrebbe crollare se il fiume di dollari portato dal petrolio si riducesse sotto a certi limiti. Quindi nessuno fece una piega quando l’OPEC, il 28 Marzo del 1998, decise di ridurre la produzione di 1.245.000 barili al giorno per cercare di rialzarne il prezzo fino a quello che era considerato un traguardo ottimale: 21 dollari. Soglia, come si sa, poi abbondantemente superata. Ma non è solo questo rialzo che ha fatto lievitare i prezzi alla pompa; ma questa è, per i governanti occidentali, una scusa molto comoda. E’ sin troppo facile incarnare tutti i nostri guai di caro-carburante nelle immagini televisive di lunghi tavoli decorati con tonnellate di fiori nel tipico stile mediorientale, circondati da dignitari che sembrano tutti essersi messi in testa una tovaglia da picnic e firmano, con grasse dita piene di anelli, trattati da cui dipende il commercio mondiale dell'oro nero. È anche facile prendere di mira esclusivamente ‘gli sceicchi’, maledicendone la libertà e la protervia con la quale hanno costituito questo loro cartello di autodifesa.

In realtà, il mercato petrolifero obbedisce a leggi sue, ignote ai più, e questi signori cammellati hanno, su quello che è poi il prezzo finale del carburante, un impatto piuttosto modesto. Il famigerato ‘barile di petrolio’ è una misura standard: sono 42 galloni US, equivalenti a circa 159 litri. Con un prezzo-tipo di 30 dollari al barile, il greggio costa dunque circa 19 centesimi al litro, 433 lire all’attuale disastroso cambio Euro/Dollaro. Questa è la partenza: da qui in avanti ogni passaggio successivo è responsabile, sia pure in misura fortemente diseguale, del forte aumento dei costi, fino ad arrivare all’altissimo prezzo che paga il consumatore finale. Nessuno, ad esempio, ha mai pensato ad andare a fare i conti in tasca agli armatori delle gigantesche superpetroliere, il cui traffico, ecologicamente sempre più pericoloso, è in realtà in costante aumento. L’Agenzia internazionale dell'energia (Aie), nel suo rapporto pubblicato in Agosto, prevede infatti che l’anno prossimo la domanda mondiale di petrolio aumenterà di 1,9 milioni di barili al giorno a 77,7 milioni di barili al giorno, contro i 75,8 di quest'anno; un incremento del 2,5 per cento. Ci vogliono molti supertanker, per far viaggiare tutto questo petrolio.

A questo pensano gli armatori, che richiedono fino a 80.000 dollari al giorno di nolo per le loro ‘VLCC’, acronimo di ‘Very Large Crude Carriers’, gigantesche cisterne galleggianti con stazza fra le 220 e le 320 mila tonnellate (portata lorda). I broker che organizzano questi viaggi, incassando una provvigione media di 1%-1,25% sul nolo di una VLCC, hanno vari modi di sfruttarne le opportunità, e quest’anno, complice una situazione di instabilità politica e di continua richiesta del mercato, hanno piazzato negli ultimi mesi alcuni rimarchevoli colpi (in gergo, ‘squeeze’). Il presidente dell'Eni, Gian Maria Gros-Pietro, si è allora scagliato contro armatori ed operatori del settore, che, secondo lui, “comprano il carico delle petroliere e le lasciano in balìa delle onde in attesa di margini di guadagno più alti”. Questo potrebbe anche essere, se non fosse che in un mercato certamente non stabile come quello attuale, parcheggiare 300.000 tonnellate di greggio al largo, magari nell’Atlantico, in attesa di un movimento positivo del mercato, appare un rischio troppo elevato. Inoltre, il noleggio di una di queste petroliere costa tanto da rendere abbastanza improbabile l'idea che uno speculatore possa fermare il suo prezioso carico spendendo cifre del genere nell'attesa di un rialzo del petrolio sul mercato internazionale. Questi giochi sembrano, quindi, abbastanza marginali.

Gli stessi broker del trasporto navale petrolifero sono per la maggior parte professionisti di altissimo livello, nascosti dietro alla società dai nomi ignoti al grande pubblico ed anche a gli operatori economici normali: Glencore, Arcadia, Vitol: in Italia Ferrotank, Sernavimar, Banchero & Costa, Burke & Novi, Italia Tankers muovono migliaia di tonnellate di greggio senza che nessuno sappia neppure che esistono. Nessuno quindi li mette sotto accusa: operatori abilissimi ed invisibili, sfuggono anche ai demagoghi.

La categoria dei petrolieri veri e propri, cioè quelli che ricevevano il greggio e, nei loro impianti di raffinazione, lo trasformano in benzina, gasolio ed altri prodotti, non si presta facilmente alla difesa d'ufficio; eppure, nella loro immensa ricchezza, essi ricaricano sul prodotto una percentuale relativamente accettabile. Parlando sempre della benzina verde, tuttora il carburante di più interesse per gli automobilisti, abbiamo quindi che un litro di questa costa, all'uscita della raffineria, circa 700 lire, meno di 800 alla pompa (il gasolio, per ragioni industriali, costa un po’ di più). Questa è la ragione per cui la benzina costava relativamente poco  meno di adesso anche all’inizio del 1998, quando il dollaro oscillava attorno alle 1.700 lire ed il barile di petrolio era a 10-11 dollari, un terzo del prezzo odierno.Il problema vero nella confezione del costo dei carburanti non è quindi quello dell’avidità degli sceicchi, né i prezzi praticati da gli armatori delle petroliere, non le percentuali pagate su questi noli ai vari broker, e nemmeno i profitti, indubbiamente comunque molto alti, dei petrolieri veri e propri. Prendersela con da queste parti della catena produttive del carburante è in larga parte pura e semplice demagogia.

Altri sono in realtà i fattori che penalizzano in maniera drammatica il costo del petrolio, facendo lievitare il prezzo dei suoi sottoprodotti a livelli elevatissimi. Il primo, sovranazionale ma pur sempre figlio di una serie di decisioni europeistiche scellerate e mal gestite, è il crollo dell’Euro. Collasso continuo e senza fondo, figlio della scellerata decisione di avere voluto adottare una moneta unica europea prima del tempo, vincolando a questa tutte le monete degli stati membri prima di avere costruito una effettiva struttura politica, oltre che economica, dell'Europa Unita. Lasciato effettivamente a se stesso, indifeso di fronte a pressioni speculative mondiali della più varia origine, l'Euro ha finito per crollare indecorosamente fino a livelli prossimi a 80 centesimi per dollaro, perdendo in pochi mesi quasi un terzo del suo valore nominale di partenza, e che si riflette in maniera ovviamente e pesantemente negativa sulla costo reale, in Europa, di quel famoso barile, che viene da sempre pagato in dollari. Comunque sia, l'Italia ha speso nel 1997 circa 19.000 miliardi per le importazioni di petrolio, mentre quest'anno, si pensa di arrivare a toccare i 30 mila miliardi.

Non sarebbe quindi risolutivo, ma certo di grandissimo sollievo, e sicuramente sarebbe molto desiderabile, lo sfruttamento a pieno ritmo dei giacimenti petroliferi lucani, che secondo l’Agip potrebbero fornire almeno 104.000 barili di greggio al giorno. Questi giacimenti, inspiegabilmente circondati da una cortina di silenzio e mistero, hanno la potenzialità per coprire, nel giro di pochi anni circa l’8% del fabbisogno nazionale. Ma il loro sfruttamento appare complesso e macchinoso, forse anche per interventi politici a livello locale. Nessuno che sappia di sedere sopra ad un giacimento d’oro nero concede facilmente a chiunque di estrarlo senza pretendere in cambio un’adeguata contropartita: la Regione Basilicata ha quindi sottoposto al Governo una serie di ardite richieste in cambio del nulla osta all’estrazione del petrolio, e tali richieste sono state puntualmente respinte. Risultato: uno stallo, e intanto siamo costretti a chiedere petrolio libico, per il 30% del nostro fabbisogno complessivo, a Gheddafi.

Ma il vero Grande Fratello orwelliano, quello che sorveglia i nostri consumi e ci taglieggia, è lo Stato: il Fisco. Questo è il fattore più importante nella drammatica lievitazione del prezzo di tutti i carburanti. L’OPEC stessa stima in un 68% circa la media europea della percentuale del gravame fiscale sul prezzo del carburante (il restante 32% è equamente diviso fra produttori e rivenditori), che in Italia sale al 68,7%. Per essere precisi: secondo dati del Ministero dell’Industria, il 16/10/2000 le 2.205 lire di un litro di ‘verde’ derivavano da un prezzo della benzina, al netto delle imposte, di 789,53 lire, da 373,5 lire di IVA e ben 1.077,962 lire di accise. Per il gasolio, tali cifre diventano rispettivamente di 810,106, 309,830 e 739,064 lire. Dunque, mentre i cittadini tirano già la cinghia per un carico fiscale che è fra i più alti (e peggio gestiti) d’Europa, lo Stato dalla raffineria alla pompa di benzina incamera, senza nulla fare, una somma enorme, quasi il doppio del prezzo all’origine della benzina: questo è il vero scandalo. Ma, per quanto tutti abbiano ormai ben chiara l'immoralità delle tassazione sui carburanti, per quanto tutti proclami non ufficialmente che si dovrebbe abbassare il prezzo alla pompa, per quanto persino gli stessi Verdi, reduci da una batosta colossale in Germania proprio sul prezzo della benzina stiano (per una volta) zitti, la tassazione sulla benzina e sul gasolio da autotrazione non cala. Il piccolo sconto fiscale concesso dal governo D'Alema è apparso da subito una beffarda, inconcludente elemosina ad automobilisti spremuti da più versi come limoni, proprio dallo Stato. Un breve inciso: scandalizzarsi per il prezzo del petrolio e della benzina è senza dubbio giusto, e i toni apocalittici sono strumenti del mestiere caratteristici dei cronisti televisivi, ma chi ha ripetutamente dichiarato che in Italia il prezzo della benzina è scandaloso perché secondo lui sarebbe di 80 lire più alto che nel resto d'Europa, in Europa evidentemente non c'è mai stato. In Germania, ad esempio, il prezzo della benzina verde, che alla produzione è di 698 lire, oscilla sui livelli italiani, in Francia, sfora abbondantemente le 2.450 lire (nonostante il prezzo industriale sia il più basso dei Paesi aderenti all’UME, 692 lire); in Inghilterra si passa ancora oltre, con un litro di ‘verde’ che al momento in cui scriviamo, passa gli 80 pence. Se volete fare il conto, con una sterlina che è arrivata a quota 3.300, vedete subito che noi, nella disgrazia, perlomeno non siamo soli. Ci dicono anche (e questa è la voce dei coristi del governo, s’intende) che nel 1975 eravamo arrivati a pagare la benzina l’equivalente di 3.500 lire al litro. Bella consolazione. In USA, dove lo Stato ha forse più rispetto del cittadino, la benzina costa 1,60-1,65 dollari per ‘US Gallon’ (che equivale a 3,785 litri), quindi circa 1.000 lire al litro, meno della metà che da noi.

D'altra parte, la gigantesca massa di denaro che lo Stato incamera dalla tassazione della benzina rappresenta un gettito ormai assolutamente indispensabile per la sopravvivenza stessa della nostra struttura burocratica, ed è per questo che gli uomini politici, in particolare i ministri competenti (o presunti tali) su questi temi, si trovano costretti ad estrose acrobazie verbali per mostrarsi da un lato preoccupati per quella che continuano a definire l’avidità degli sceicchi, dall'altra assolutamente contrari a qualsiasi idea di riduzione del prezzo del carburante, o meglio: contrari a qualsiasi sconto su questo incredibile carico fiscale. Ridurre anche solo di poche centinaia di lire questa tassazione alleggerirebbe in maniera significativa il carico, ora davvero assai gravoso, per gli automobilisti. Basterebbe uno sconto di 200 lire al litro, meno di quanto sia cresciuta la benzina negli ultimi 12 mesi, per neutralizzare questo fardello; ai Ministri Visco e Del Turco rimarrebbero comunque almeno 1300-1400 lire di tasse da incamerare per ogni litro. Purtroppo, l'appetito vien mangiando, e non v’è proverbio che meglio descriva le voraci attività predatorie dei nostri onorevoli Ministri.

L’Unione Europea, fortissima nella penalizzazione del consumatore facendo la voce grossa quando ha di fronte i ‘piccoli’ (e fuggendo con la coda fra le gambe quando si trova di fronte l’America) ha dato man forte ai governi messi sotto pressione dalle proteste contro il caro-carburante. La commissaria Ue all'energia Loyola de Palacio, al proposito, è stata brutale nella sua ipocrisia: "Per ragioni sia economiche sia ambientali gli stati membri non devono cedere alle pressioni e modificare la loro politica di tassazione del petrolio - ha affermato De Palacio - una riduzione delle tasse equivarrebbe a un trasferimento di risorse fiscali a beneficio dei paesi Opec". Consumatori, arrangiatevi: i responsabili della crisi dell’Euro, che tanto contribuisce ad appesantire il prezzo della benzina, se ne lavano le mani. Vogliono solo tenersi i soldi.

 

 Edward Luttwak è uno scrittore ed analista di vedute molto ampie. Il suo mestiere, da ex consulente del Pentagono, è quello di cercare di vedere nel futuro, cioè un po' più lontano di noi mortali. La sua opinione sulla attuale crisi petrolifera è, in un certo senso, la più catastrofica di tutte, e allora lui butta lì una provocazione: il prezzo è alto, i carburanti costano molto, allora raddoppiamone ancora i prezzi. Follia? Certamente un colpo di teatro, qualcosa che viene detto perché, nella sua chiara irrealizzabilità e inapplicabilità, metta perlomeno in moto ingranaggi altrimenti arrugginiti.

Il suo ragionamento è interessantissimo, toccando un punto fondamentale nella storia della politica energetica mondiale degli ultimi decenni. Egli sottolinea come durante le prime grande crisi petrolifera, in mezzo ai fenomeni isterici che portarono gli americani a gettar via i loro enormi macchinoni per comprare ridicole utilitarie mal costruite, si avviò però, come durante una guerra, una serie di progetti di straordinaria prospettiva proprio nel campo del risparmio energetico. Tali grandi ricerche sulle energie alternative (periodica, nucleare, elettrica) iniziarono su scala industriale proprio perché il petrolio era arrivato a prezzi spaventosi. Una volta finita questa enorme fiammata inflattiva, il petrolio tornò ad essere economico, precipitando fino al dei livelli record, stavolta negativi, di 11-12 dollari al barile. I prezzi dei carburanti calarono di conseguenza, l’isteria si calmò, e in seguito a questo rilassamento i progetti per l'energia alternativa vennero pian piano abbandonati. La disponibilità di combustibile fossile ancora una volta abbondante ed a buon mercato rese improvvisamente inutile, almeno agli occhi miopi dei  politici e dei programmatori economici dell'epoca, qualsiasi ricerca avanzata alternativa. L’assurda, demagogica bocciatura dell'energia nucleare, vera benedizione per i petrolieri che seppero astutamente sfruttare le nevrosi degli ambientalisti sinistrorsi dell'epoca, riconsegnò tutto il fabbisogno energetico italiano nelle mani del solito oligopolio, una manciata di petrolieri strettamente alleati con i politici dominanti, inattaccabili e senza più alcuna preoccupazione per il futuro.

La ritrovata coesione dei paesi produttori di petrolio ha però rimescolato ancora una volta le carte in tavola, mettendo a nudo in maniera impietosa le scandalose limitazioni tecniche di una politica di programmazione energetica ed economica europea fatta da dilettanti allo sbaraglio. È grazie a loro che continuiamo ad avere una dipendenza totale dal petrolio che importiamo da paesi di tutto il mondo, ed è per questo che rimaniamo in balìa dei ricatti di tutti i produttori. Non c'è quindi da strapparsi i capelli ora per l'aumento del prezzo della benzina. È senz'altro meglio conservarne qualcuno da strapparsi più avanti, quando il prezzo della ‘verde’ salirà ancora, misteriosamente, anche se il petrolio Brent o saudita sarà sceso nuovamente a 22 dollari al barile. A ripianare la differenza ci penseranno i soliti ineffabili ministri finanziari italiani, s’intende.

Stefano Pasini, 28.10.2000

(per saperne di più)

  http://www.minindustria.it/Dgatm/CabMon/ott2000/StrutMed161000.htm

  http://www.eia.doe.gov/emeu/cabs/chron.html

  http://www.opec.org/193.81.181.14/default.htm