Stefano Pasini

 

 

JAGUAR XJR

 

Una notte piovosa, a Londra...
 
Felix Meister, impaziente, guardò fuori dal gabbiotto del custode. La vide arrivare, filante, piena di curve. Ma si aspettava qualcosa di diverso: per quella missione, aveva chiesto un’auto veloce, un’Aston Martin, magari. E invece gli davano una grande berlina a quattro porte, una Jaguar. Alzò gli occhi al cielo: Santo Cielo, roba da veri elegantoni! Dove pensavano che andasse, a un ricevimento della Regina?
 

 
La Jaguar blu, accompagnata da un sottile ringhio metallico, si fermò davanti a lui. L’aveva sempre creduta antica, ma ora che la vedeva bene capiva che in realtà gli anni, sulle sue forme, erano passati senza lasciare traccia. L’uomo che gliel’aveva portata scese, il volto impassibile. “Dannati inglesi”, pensò Felix Meister, infiammabile come tutti i texani, “nemmeno di fronte ad una carrozzeria del genere lasciano tradire emozioni.”
Ma il suo amico James, quando gliel’aveva consigliata per la sua missione a Londra, sapeva quel che faceva. “Ti faccio mettere a disposizione un’auto del nostro Servizio, Felix” aveva sogghignato il suo amico, accendendosi una di quelle sue orribili Parliament fuori moda ; il pesante Rolex d’acciaio aveva sfavillato per un attimo, sotto all’immacolato polsino della camicia di Thomas Pink. “Qui a Londra, avrai bisogno di un’auto cui la gente non faccia più caso, niente di vistoso, Porsche, Ferrari…. devi poterci andare anche nel cuore dell’East End. Certo, avrai bisogno di cavalli. Non ti preoccupare, ti procurerò qualcosa di discreto, che dia poco nell’occhio, ma con potenza a sufficienza. Qualcosa fatto apposta per strapazzare le tue macchinine a pedali fatte a Detroit, anche la tua dannata Studillac.”
Come James, anche Felix Meister aveva un fisico che non passava inosservato fra le carnagioni pallide di Heathrow. Scivolò quindi subito al posto guida della grossa Jaguar: il lucido uncino d’acciaio che sostituiva la sua mano destra, ricordo di una visita a Everglades di qualche anno prima, accarezzò la leva del cambio, poi la artigliò con un leggero tintinnio. Felix tirò indietro la leva : su ‘D’, la Jaguar si animò appena, poi, alzata la sbarra, all’agente della CIA bastò accarezzare l’acceleratore per avviarsi fuori dal tetro parcheggio, nella pioggia di Londra, verso il malfamato bar dove l’attendeva la sua missione. Dove avrebbe trovato la ragazza, o, come aveva detto poco prima a James, ‘formaldeide e gigli’.
Mentre si preparava all’incontro per il quale si trovava lì, Meister iniziò a guardarsi attorno. Non voleva ammetterlo, ma quella Jaguar era maledettamente comoda. Fuori pioveva fitto e leggero come in una notte di Chinatown, tutto buio, acqua polverizzata e fanalini rossi che si accendevano in distanza. 
Seguì la strada, indefinito nastro d’asfalto luccicante di pioggia, rimpiangendo il sole asciutto del suo ranch, vicino a Houston; il lento battito del tergi gli sembrava ricordare l’impassibilità inglese di fronte alle peggiori situazioni metereologiche. Con cura, regolò il sistema di climatizzazione. Automatico, adesso, e del tutto diverso da quello della vecchia Jaguar che aveva guidato tanti anni prima; ora, i vetri non si appannavano più.
Nella comodità assoluta di quel silenzioso salotto felpato, raccolse le idee. Ma al successivo semaforo rosso, i suoi occhi quasi involontariamente tornarono a percorrere il cruscotto, lungo, piatto e pieno di legno pregiato quasi nero, uno spettacolo. Anche gli strumenti, ora, sembravano avere più dignità, anche se per un texano come lui, forse, mancavano ancora delle lucine.
Si sciolse lentamente i muscoli su quei sedili, comodi come la poltrona di pelle del Direttore della CIA. La sua corporatura massiccia non gli permise di stendersi più di tanto, ma la vecchia cassetta di Robert Johnson che si era portato dietro quasi per caso gli restituì un poco di atmosfera di casa. Il jet-lag parve ridursi, mentre la Jaguar lo portava, come su un cuscino d’aria, oltre le prime buche dietro a Dagenham; una vecchia fabbrica d’auto lanciava verso il cielo ciminiere e fuliggine. Pensò un attimo alla lontana parentela fra la Jaguar che stava guidando e quella Casa; scosse le spalle, come allontanare l'idea. Robert Johnson continuava a parlare di scope, incroci e diavoli. Nel silenzio completo dell’interno, la sua voce roca risuonava bassa, cupa.
Si districò in direzione dell’East End, aiutato dal servosterzo della Jaguar. Puntando quel lungo muso in strade buie, piene di giornali vecchi sollevati dal vento tagliente, si meravigliò della manovrabilità di quella comoda berlina. E finalmente trovò il posto che cercava.
Il “Plough and Goat” non aveva nulla del pub per yuppie; forse era lì che Wilf the Wheelman era venuto a bere il suo ultimo scotch a poco prezzo, di quello bevuto da bottiglie cadute da un camion diretto al porto. Felix parcheggiò la Jaguar con cura, il muso rivolto verso Ovest e senza niente, davanti, a bloccare un’eventuale fuga; la manovra richiese due dita, pochi secondi. La riguardò un attimo solo. Bellissima, davvero. La griglia metallica del radiatore lo riportò molti anni indietro, a quando aveva iniziato a correre sugli aeroporti del Sud della California. Ora, però, aveva altro a cui pensare.
Gli avventori del “Plough and Goat” non avevano notato la Jaguar. O forse sì? Uomini bassi dagli occhi sfuggenti, con maglioni a collo alto e grosse pinte di Guinness tiepida in mano, fecero finta di non guardarlo, ma, quando fu al bancone, Felix si sentì più occhi addosso di Cindy Crawford ad una sfilata di biancheria intima. Il barman lo guardò appena. “Tu cerchi gioielli. Vorresti vedelli?” Slang, Cockney. James lo aveva avvisato. “Vorrei una birra, ma piena di mirra.” L’uomo al banco non sorrise; nessuno gli aveva descritto lo straniero, pure la parola d’ordine era giusta. Gli diede una pinta di ‘scura’, poi passò nel retro.
L’inferno si aprì davanti all’agente della CIA in un attimo. La bionda che gli piombò in braccio era un sogno, morbida, calda. Era tutta curve, come le strade ferrate nei film di una volta, ma dietro aveva una grossa Colt .45 nichelata, e Felix si trovò la canna ad altezza sopracciglio. Il barman lo guardò, sogghignando: “La cercavi da un anno/Hai trovato danno.” Ancora rime, Felix non ne poteva più. E due uomini, lo vide nello specchio, si stavano alzando dietro di lui. Tempo di muoversi, e in fretta.
Il suo uncino balenò fuori dalla tasca: il barista ne fu ipnotizzato, e non si mosse nemmeno quando Felix glielo piantò nell’avambraccio. Il gorilla emise un urlo inumano, e Pamela morse a sangue l’altro avambraccio del bruto, che aveva mollato la sua .45 per tamponare il buco da uncino. Non ci metterà molto a riprendersi, pensò Meister, che dette un calcio ad un tavolo addosso ai due uomini, sbraitò alla pollastra di alzare le gonne e si proiettò con lei fuori dal locale. Cristo, ci aveva messo una vita a ritrovarla, la figlia del Presidente, non l’avrebbe persa ora.
Le frecce della Jaguar occhieggiarono un istante quando azionò il telecomando dalla soglia del locale; Felix Meister e la pupa corsero all’auto e si gettarono dentro, non c’era tempo da perdere e prima se ne andavno, meglio era. L’improvviso accendere dei fari di una grossa Audi A8 nera, poi il primo proiettile che gli sibilò accanto, glielo ricordarono.
Il motore si avviò silenzioso, come facesse le fusa, ma a Felix ora importava solo schiacciare su quel dannato acceleratore albionico; chissà, pensò, come faremo a cavarcela con quella vecchia reliquia imperiale contro l’incrociatore spaziale Unno….
La pupa, ribaltandosi più in fretta che poteva sul sedile del passeggero, rivelò un reggicalze che avrebbe fatto dimenticare a Meister anche il Presidente stesso, se non fosse stato per quelle dannate Colt che abbaiavano nella notte. Con la coda dell’occhio, vide poi che uno di quei maledetti stava tirando fuori un Kalashnikov. Lo ricordava bene quel profilo in metallo nero e legno cinese, dai tempi di Khe Sanh…..
Il sordo mugolio meccanico della Jaguar sotto sforzo lo strappò agli incubi delle vallate del Vietnam. Con agilità impensabile in una stagionata signora inglese d’alta classe, la Jaguar si fiondò in avanti come un missile. In poco più di 5 secondi era già oltre i 100 chilometri orari, ma Felix aveva poco tempo per lo stupore. In fondo alla strada, il muro di mattoni di una distilleria si avvicinava pericolosamente.
Istintivamente, Meister abbaiò alla bionda “Tienti forte, pupa, ora si balla!” calò l’uncino metallico sulla leva, la passò con decisione nella scanalatura sinistra e poi in avanti lungo quel curioso selettore, da ‘D’ a ‘4’, poi a ‘3’; con un tremito appena accennato del posteriore, la lunga berlina rallentò, poi, quando Felix ebbe di colpo buttato tutto il volante a sinistra, il resto della carrozzeria seguì come una gattina bene addestrata. Ce l’avevano fatta: la luce arancione del controllo di trazione lampeggiava nel quadrante del tachimetro come per dire ehi bello, questa te l’ho fatta fare io, ed aveva ragione, perché su quel pavè bagnato, pensò Felix Meister, non sarebbe stata diritta neppure una passeggiatrice di Las Vegas.
Un altro sibilo gli ricordò che aveva compagni di viaggio. James gliel’aveva sempre detto, attento alle Mercedes nere, nei nostri romanzi tutti i cattivi ne hanno almeno una…. questa era un’Audi, però aveva tutti gli optional, anche le mitragliatrici fuori dai finestrini, pensò Felix. Maledizione, quei bastardi hanno un 5 litri tedesco, e James e i suoi amici mi hanno dato un vagone che sembra fatto per l’ippodromo di Ascot!
Capì che stava andando molto forte, ma, quando arrivò finalmente a schiacciare l’acceleratore fino in fondo, la Jaguar balzò ancora più velocemente in avanti. Sullo sfondo, il suo orecchio allenato captò un ringhio metallico.
Quel raschiare di metalli pregiati gli strappò un mezzo sorriso. James aveva una vera passione per il compressore volumetrico, e Felix, quando ne parlavano, alzava gli occhi al cielo. “Santo Cielo, sempre le tue polverose storie con le vecchie Bentley e i meccanici della RAF....”
Ecco cos’avevano fatto: quegli amorevoli bastardi del Servizio, di nascosto, avevano imbullonato un grosso compressore Roots sotto al cofano di una comoda, elegante berlina di rappresentanza. I banditi che gli stavano dando la caccia pensavano che l’avrebbero preso in fretta: ma, pensò ora Felix, forse si sbagliavano. Schiacciò il pedale dell’acceleratore fino a sentire male alla caviglia, “Pedal to the Metal, Pedal to the Metal…” continuava a ripetersi.
I cavalli del grosso V8 non avevano bisogno di molti incoraggiamenti. La Jaguar stava correndo velocissima, sicura, il posteriore appena danzante sullo sconnesso di periferia. Nonostante il silenzio completo del suo interno, continuavano a guadagnare terreno, Felix constatò con soddisfazione. Metro su metro, ad ogni curva, i lampi degli AK-47 si allontanavano; la pupa, cintura di sicurezza ben allacciata, faceva le fusa sul grande sedile ricoperto di pelle, forse umana, profumata come su nessuna automobile americana. Questo, l’agente della CIA dovette ammetterlo, e gli spiacque.
Fuori dall’ovattato abitacolo, il traffico stava diventando più fitto man mano che ci si avvicinava all’ingresso della M25, e la grossa Jaguar faceva fatica a districarsi fra i furgoni Bedford e le anziane Wolseley verdine. Maledizione, bestemmiò Felix fra i denti, queste sono auto troppo grandi da portare in mezzo a questo traffico…. La grossa berlina nera che li inseguiva aveva però gli stessi problemi, anche se sopra agli specchietti retrovisori continuavano ad apparire dei piccoli lampi. La pupa non fiatava, abbassava solo la testa quando si sentiva, lontano, il latrato cavernoso di una .44, o il secco tac-tac-tac del Kalashnikov.
All’improvviso, un furgone Astramax gli tagliò la strada. Felix piantò il suo pesante piede destro sul freno, e dovette sterzare a sinistra più rapidamente che potè. La Jaguar seguì i suoi comandi docile, una frenata composta che non tradiva irritazione per quel maltrattamento. “Stupido bastardo!” bestemmiò sottovoce Felix al conducente dell’Astramax, un giovane rasato a zero che gli espose il dito medio dal finestrino e immediatamente dopo si buscò tre pallottole di AK-47 fra finestrino e portiera. Meister non guardò neppure il furgone che andava a ribaltarsi incendiandosi nell’aiuola centrale, a lui premeva solo raggiungere lo svincolo della M25, e, con il piede destro saldamente piantato a fondo corsa sull’acceleratore, ci si diresse.
L’ulteriore scatto in avanti della Jaguar lo sorprese ancora; qui, con l’asfalto più asciutto, i cavalli di quella specie di carrozza a reazione non erano addomesticati dal controllo di trazione, finirono tutti in accelerazione. Felix sentì come una grande cortese mano proiettarli in avanti, mentre la grossa berlina tedesca, dopo avere schivato il furgone, si allontanava in distanza.
L’agente della CIA tenne il pedale giù, infilandosi a tutta velocità su per il raccordo verso la M25. La stabilità era eccellente, anche ‘appoggiando’ a tutta velocità su per lo stretto svincolo; lo sterzo aveva mantenuto un buon feeling, guidare quell’auto era un piacere.
Aveva una frazione di secondo libera, e la usò per guardare verso la sua preziosa passeggera. Pamela si era comportata molto bene, forse non aveva capito niente, oppure il comfort di bordo l’aveva tenuta calma….. ottimo, pensò Felix Meister, l’ultima cosa che voleva a bordo era una pupa schiamazzante.
120, 130 miglia all’ora, sull’autostrada poco trafficata la Jaguar stava sgranchendosi quelle lunghe gambe, un po’ sacrificate fra le viuzze dell’East End. Felix ascoltò con piacere il basso mormorio del V8, il distante ronzio quasi elettrico del Roots, mentre il tachimetro saliva verso 150 miglia orarie: i fari dietro di loro scomparvero, mentre la lancetta, sulla scala europea del tachimetro, segnava 250 chilometri orari. Con soddisfazione, Felix notò che nel retrovisore non c’erano fari che mantenessero la stessa distanza dalla Jaguar, tutte le auto della M25 sembravano fuggire in retromarcia, quando le superavano.
Il telefono di bordo squillò, un trillo elegante, appena accennato. Meister rimase un attimo sorpreso. Rispose. Era, naturalmente, James.
“Come va il tuo contatto con l’umida Inghilterra, amico mio?” Felix rise, i suoi azzurri occhi di ghiaccio si restrinsero a due fessure. “Umido? Per qualche momento, Londra mi è sembrata secca e calda, molto calda… come l’inferno. Ora tutto bene.”
“Sì, lo so”, disse la voce quasi annoiata dall’altra parte. “Sei sulla M25, verso Nord-Ovest, stai facendo, diciamo, 155 miglia all’ora. Se vai così forte vuol dire che non ti hanno sparato nel lunotto. Proprio dei fessi.”
Felix iniziò “Ehi, come diavolo?…..”
“Satelliti, vecchio mio, una manciata di satelliti e qualche buon amico…. a proposito, smetti di preoccuparti di quella berlina nera. Un autobus ha cambiato ‘accidentalmente’ corsia circa tre minuti fa, sulla M25…. Ci metteremo un po’ a raccogliere tutti i pezzi. Un deprecabile incidente, s’intende, quattro gentiluomini della SMERSH prematuramente deceduti…. i rischi del mestiere.”
Felix sogghignò. “Allora, game over?”
“Che brutti termini che usate, alla CIA!” rise la voce all’altro telefono. “Fine dei giochi, sì. Piaciuta l’auto?” Felix rise, stavolta, di gusto, allentando la tensione.
“Sì, e accidenti a te, maledetto figlio di madre inglese! Pensavo fosse un carrozzone, invece è un razzo. Comoda, anche, gran ferro. Ma potevi avvisarmi, quando hanno iniziato a inseguirci credevo di non farcela.” Anche l’altro rise. “Mia madre era scozzese, ignorante. Poi, avrei dovuto farti prendere un brevetto, prima di darti quel razzo. Comunque, ora esci dalla M25, visto che sei alla A1. Nessuno vi cerca, scendete verso il centro. Al ‘Chat Noir’ c’è un tavolo per due, ed una bottiglia di Mouton Rotschild del ’53 che vi aspetta in fresco. Buona serata, Felix, e buon divertimento.” Clik.
Per Meister, sapere che la berlina nera che gli stava correndo dietro non esisteva più rappresentò la più grande gioia possibile. Mollò l’acceleratore, e si stirò i muscoli che, naturalmente, aveva contratto involontariamente fino ad allora.
Si rese improvvisamente conto dei due occhi blu che lo stavano trapanando dal sedile del passeggero. Si voltò: Pamela sorrideva. Il silenzio della Jaguar, ed il profumo della pelle Connolly, li avvolse come un lenzuolo di complicità. In un sussurro, chiese “Fine dei giochi? Davvero?” Felix sorrise, la Jaguar ora veleggiava a 85 miglia all’ora, silenziosa, ubbidiente. “Dipende, pupa” disse, sterzando verso una rampa d’uscita dalla M25 e verso il centro. “Conosco un localino dove festeggiare l’operazione…..” Gli occhi della pupa approvarono, con un tempestoso battito di ciglia e movimenti sospetti sotto al minivestito.
Forse il gioco migliore deve ancora iniziare, pensò Felix. Battè un leggero colpo con il palmo delle mani sulla corona del volante in pelle e legno, segno di aperta approvazione dell’auto. Quei grandissimi figli di buona donna del Servizio, pensò Felix…. un grosso motore con il compressore, dentro alla loro più lussuosa e costosa berlina, ecco cosa mi hanno preparato. Ah, se fosse per me la metterei in produzione, un’auto del genere…. sarebbe uno sballo, qualcosa d’eccezionale. Come la potremmo chiamare, un oggetto del genere? Vediamo….. Jaguar XJ… ‘R’? Come per ‘Racing’? O per ‘Rapida’, ‘Rauca’, ‘Ribelle’... Sì, ‘XJR’ suona bene, pensò Felix, parcheggiando la grossa auto blu metallizzata davanti al ‘Chat Noir’.
Il gallonatissimo portiere aprì con deferenza la portiera a Pamela. Entrando nel locale, Felix si voltò a guardarla ancora una volta. Bellissima, intramontabile, elegante. La macchina, s’intende. Ed anche velocissima, un missile. La prossima volta che torno, ne voglio un’altra, pensò. Identica.
 
Stefano Pasini, Bologna, 2000 (Pubblicato su 'Le Grandi Automobili')


  

20 YEARS OF CLARKSON: JAGUAR XJR REVIEW (1995)
La storia della Jaguar XJR

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